Omelia nella Messa del cinquantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale
di don Antonio Caccetta
Chiesa san Giovanni Elemosiniere, Morciano, 23 luglio 2023.

Caro don Antonio,

credo che siano soprattutto tre i sentimenti che animano il tuo cuore in questa celebrazione per il cinquantesimo anniversario della tua ordinazione presbiterale: la memoria della tua dignità sacerdotale, il rendimento di grazie al Signore, il desiderio di congedarti con gioia. 

1. Fai memoria della tua dignità sacerdotale

In questa felice circostanza, sei innanzitutto chiamato a far memoria della dignità che ti è stata conferita con l’ordinazione sacerdotale. Sei stato associato al sacerdozio di Cristo, non per tuo merito, ma per un dono d’amore. San Tommaso d’Aquino, con una sua frase incisiva, afferma: «Cristo è la fonte di ogni sacerdozio: infatti il sacerdote della legge [antica] era figura di lui, mentre il sacerdote della nuova legge agisce in persona di lui»[1]

Ugualmente significative sono le parole di una preghiera del rito bizantino per esprimere il dono spirituale dell’ordinazione presbiterale: «Signore, riempi di Spirito Santo colui che ti sei degnato di elevare alla dignità sacerdotale, affinché sia degno di stare irreprensibile davanti al tuo altare, di annunciare il Vangelo del tuo regno, di compiere il ministero della tua parola di verità, di offrirti doni e sacrifici spirituali, di rinnovare il tuo popolo mediante il lavacro della rigenerazione; in modo che egli stesso vada incontro al nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo, tuo unico Figlio, nel giorno della sua seconda venuta, e riceva dalla tua immensa bontà la ricompensa di un fedele adempimento del suo ministero»[2].

Far memoria significa saper gustare la grazia ricevuta, facendo rivivere i doni che ti sono stati consegnati. La memoria ti avvicina a Dio e all’opera che egli ha compiuto nella tua vita. Facendo memoria della tua esistenza e del tuo ministero apprezza e assapora la dolcezza della misericordia con cui Dio ti ha circondato.

Riconosci di essere stato misteriosamente e discretamente accompagnato dal Signore, sia quando gli sei stato vicino sia quando ti sei un po’ allontanato da lui. La tua vita sacerdotale è uno scrigno di memorie: memorie delle meraviglie che Dio ha compiuto come anche degli ostacoli e dei rifiuti che hai frapposto alla sua grazia e che ti hanno impedito di far fruttificare al meglio i suoi doni. Dio, però, ha camminato sempre accanto a te. Egli non si spaventa dei nostri peccati, ma è rispettoso e paziente e sa attendere il nostro ritorno a lui! 

Non a caso, la Chiesa chiama “memoriale” il sacramento dell’Eucaristia. Di questo memoriale sei stato costituito ministro e testimone: ministro in quanto servo del mistero, testimone in quanto araldo della salvezza. «Essere testimone – afferma il cardinale francese Emmanuel Célestin Suhard 

significa farsi mistero, vivere in maniera tale che la propria vita sarebbe inesplicabile se Dio non esistesse»[3].

2. Rendi grazie al Signore perché è buono 

Celebrando il cinquantesimo di sacerdozio diventi per tutti noi una presenza carica di benedizione e ti prepari a un nuovo incontro con il Signore e a un rinnovato desiderio di esprimergli la tua gratitudine. Perciò con il salmista, «rendi grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre» (Sal 118,1). 

Sotto questo profilo è significativa l’immagine del prete descritta nel romanzo di Luciano Radi dal titolo Non sono solo[4]. Il protagonista, un vecchio parroco, è un’anima semplice e profonda. L’attenuarsi dell’attività pastorale e l’esodo dei giovani lo hanno aiutato a scendere nelle profondità della sua anima, alla ricerca della radice del suo essere. Sostando nella sua intimità, egli scorge la presenza invisibile, ma reale del Signore ed esclama: «Quando scavi per trovare il tuo io, in fondo al pozzo del tuo essere, trovi senza volerlo Dio»[5]

Si opera così in lui una trasfigurazione della realtà. Tutto assume una dimensione inedita, un nuovo sapore di eternità, un intenso valore di redenzione. In questo sfondo di fede, l’età conta relativamente poco. Conta soprattutto la capacità di amare e di soffrire per la salvezza dei fedeli. Essa si dilata mentre si restringe l’attività pastorale. Così il sacerdote si riconosce «come la fonte che è al centro del paese, corrosa dal tempo, ma ricca di acqua pura per la sorgente lontana che l’alimenta»[6].

Anche una donna, provata dal dolore, gli dice: «Abbiamo bisogno di vedere la vostra fiaccola sopra il moggio, perché ci indichi la strada, nel dolore e nella fatica. Insegnateci a nobilitare il nostro sacrificio agli occhi del Signore perché abbia un senso. Soffrire senza sapere perché, porta fatalmente alla follia»[7]. Il sacerdote allora comprende che per essere segno di Dio bisogna essere pieni di Dio, seguendo le orme di Cristo. La ricchezza del prete non è data dalle opere compiute, ma dalla sua vita interiore, alimentata dalla preghiera e dal sacrificio. 

3. Congedati con gioia dalla tua comunità 

Non c’è dubbio che costa sofferenza lasciare i propri incarichi. La legge canonica precedente prevedeva l’inamovibilità dall’ufficio. In determinate circostanze, era affidata alla saggezza e alla sensibilità del parroco la decisione di rassegnare le dimissioni dall’ufficio. Il nuovo codice di diritto canonico, al paragrafo 3 del canone 538, prevede che raggiunti i 75 anni il sacerdote dia le dimissioni dal suo incarico pastorale. Il canone testualmente afferma: «Compiuti i settantacinque anni, il parroco è invitato a presentare la rinuncia all’ufficio al Vescovo diocesano, il quale, considerata ogni circostanza di persona e di luogo, decida se accettarla o differirla».

A tal proposito, va detto che il sacerdote non va mai in pensione, ma è chiamato a servire il Signore e la Chiesa in altro modo, sempre con il cuore aperto e generoso. Il pastore, tuttavia, deve essere pronto a congedarsi[8]. Per tutti arriva il momento di lasciare i propri incarichi. Non bisogna mai tirarsi indietro dalle proprie responsabilità, ma non bisogna nemmeno rimanere legati in modo inamovibile ai propri uffici. Tantomeno ci si deve appropriare delle persone affidate o legare in modo narcisistico la propria persona ai ruoli che si rivestono. Occorre sempre rimettersi in cammino, con libertà, senza calcoli e senza sapere cosa accadrà in futuro. 

Anche se eccezionalmente viene chiesto di continuare il servizio per un periodo più lungo, bisogna disporsi a vivere, con generosità, il nuovo progetto personale. Questa situazione, però, non dev’essere considerata un privilegio, o un trionfo personale, o un favore dovuto a presunti obblighi derivati dall’amicizia o dalla vicinanza, né deve essere intesa come gratitudine per l’efficacia dei servizi forniti. Ogni eventuale proroga si può comprendere solo per taluni motivi sempre legati al bene ecclesiale. 

Il sacerdote è un ministro e rimane sempre un servitore, pronto a farsi da parte dopo aver assolto il compito assegnato. In sintonia con il proverbio che afferma «si muore come si vive», si può dire che «ci si congeda, come si vive». Se si è vissuti con una libertà senza compromessi il congedo sarà più facile, più gioioso e più liberante. 

D’altra parte, la conclusione di un ufficio ecclesiale deve essere considerata parte integrante del servizio stesso, in quanto richiede una nuova forma di disponibilità a lasciare il proprio incarico, o a continuare quel servizio per un periodo più lungo, pur essendo stata raggiunta l’età canonica del congedo. Bisogna prepararsi adeguatamente davanti a Dio, spogliandosi dei desideri di potere e della pretesa di essere indispensabile. Questo permetterà di affrontare con serenità e fiducia tale momento, che altrimenti potrebbe essere doloroso e conflittuale. Per questo, caro don Antonio, ti suggerisco di fare, nella preghiera, un approfondito discernimento su come vivere la tappa che sta per iniziare, elaborando un nuovo progetto di vita, segnato per quanto è possibile da eleganza e umiltà, in previsione di una nuova disponibilità a continuare, in altro modo, a esercitare il tuo ministero pastorale.

La tua personale sequela di Cristo deve lasciarsi istruire e plasmare dalla differente e sapiente gestione delle tue risorse personali. Questa nuova situazione può diventare un tempo di prova, non scevro dalla tentazione di conservare qualche forma di protagonismo. Occorre prendersi cura maggiormente della propria vita, senza confrontarla con quella degli altri. È questa la saggezza di chi lascia il suo incarico. Bisogna imparare a congedarsi con il sorriso. La vita è un congedo lento e continuo. Ma deve essere un congedo gioioso nella consapevolezza di aver vissuto la propria vita e conservato la fede ricevuta. 

Caro don Antonio, guarda con gioia a chi verrà dopo di te: seguirà la sua strada, darà nuovo vigore a quello che in parte tu hai seminato, porterà avanti quello che non sei riuscito a realizzare. Dovrai essere contento di affidarlo al Signore con l’augurio che sappia fare fruttificare i suoi doni in modo più abbondante. Sempre, però, all’interno di un rapporto di reciprocità: tu dovrai essere felice di accogliere chi ti sostituirà, lui dovrà raccogliere e appezzare la tua eredità sapendo di essere sostenuto dal tuo affetto e dalla tua amicizia. 

E allora, caro don Antonio, buon congedo e buon cammino!


[1] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III, q. 22, a. 4, c

[2] Liturgia bizantina. Seconda preghiera dell’imposizione delle mani presbiteraleEukológion to méga (Roma 1873) p. 136.

[3] M. De Saint-Pierre, I nuovi preti, Edizioni Il Borghetto, 1964, p. 137.

[4] Cf. L. Radi, Non sono solo, Rusconi, Milano 1983.

[5] Ivi, p. 11.

[6] Ivi, p. 14.

[7] Ivi, p. 19

[8] Francesco, Motu proprio Imparare a congedarsi, 12 febbraio 2018.

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