Articolo del Vescovo apparso su “Nuovo Quotidiano di Puglia-Lecce”
martedì, 5 novembre 2024, pp. 1 e 27. 

Sarà proprio vero che la società della cura coincide con la democrazia, come proposto in un recente articolo pubblicato su questo giornale (domenica, 3 novembre)? Che nel nostro mondo vi sia la necessità di mettere al centro il tema e la prassi della cura, nel duplice senso di prenderci cura di noi stessi e di avere cura degli altri, soprattutto dei più deboli e dei più fragili, è cosa sacrosanta e necessaria. Anzi assolutamente urgente, in una società che sembra remare in una direzione opposta. 

Nel nostro tempo, infatti, la democrazia non solo è in una profonda crisi, come affermano in molti, ma si propone in netta antitesi con il “dovere della cura”. Sottolineo la parola “dovere” visto che la nostra società è stordita dalla ideologia del primato dei diritti individuali che devono essere proclamati ai quattro venti, senza che mai si considerino i guasti che una tale visione produce nella società. Naturalmente, nella società reale, non in quella salottiera. 

Bisognerebbe, infatti, domandarsi se, alla prova dei fatti, nei Paesi democratici, ci si prende realmente cura dei più deboli e dei più fragili. E soprattutto se ci si prenda cura di tutti, senza fare nessuna eccezione e senza escludere nessuno. Purtroppo, si deve amaramente constatare che la democrazia, come si va configurando nel nostro tempo, non sembra avere a cuore la cura dei più fragili e dei più deboli. Forse le parole rimangono altisonanti, ma i risultati concreti sono spesso deludenti. 

Stefano Davide Bettera, giornalista, filosofo e presidente dell’Unione Buddhista Europea, in un suo recente libro intitolato “Secondo natura”, che ha come sottotitolo “critica dell’ideologia liberal progressista”, parte dal presupposto che «a gran parte del pensiero progressista, il popolo, quello reale, ha sempre fatto orrore». Nel suo volume, l’autore afferma che il “wokismo” odierno è una nuova ideologia totalitaria, intransigente, che si presenta come un culto religioso, con tanto di “neo-linguaggio da iniziati” e “pensiero magico”. Il suo obiettivo è quello di «plasmare la società per trasformarla nella civiltà del post-umano, un mondo post-moderno dove ogni riferimento al reale, compreso il corpo, si trasforma in opinione». Un’ideologia, dunque, che è la negazione di un autentico spirito di libertà e di convivenza civile. In altri termini, un’ideologia antidemocratica.

Per l’autore, la soluzione sarebbe quella di “tornare alla natura delle cose”, allontanandosi da approcci ideologici a temi di grande attualità come la crisi dell’Occidente e delle religioni, il cambiamento climatico, le trasformazioni sociali, il fine vita e l’identità di genere. «Oggi – scrive Bettera – rivendicare la libertà non ha a che fare con l’estensione dei diritti e, in particolare, di diritti umani imposti anche alla natura e all’animale fino a trasfigurarne l’essenza in una maschera che scimmiotta l’umanità e ne diventa feticcio, appendice. Rivendicare la libertà significa rivendicare il sacro, non sottometterlo all’impero del relativo, della superficialità fluida, dei costumi che durano il tempo di un mattino. Libertà diventa allora sinonimo di verticalità, di resistenza eroica al levigato orizzontale e globale. Non si tratta più di ridefinire una libertà-di o una libertà-da, ma una libertà in sé, una libertà ontologica che diviene di conseguenza dimensione trascendente della libertà stessa perché si realizza nella relazione con l’essere, con l’altro». Secondo l’autore, vivere “secondo natura”, lungi dall’essere una battaglia di retroguardia e reazionaria è, al contrario, una sincera battaglia di libertà e un impegno fondamentale per restituire ancora un senso a chi verrà dopo di noi.

Quando si parla di “cura” si fa spesso ricorso al pensiero di don Tonino Bello. Si dimentica però che per lui i deboli di cui avere cura sono anche i “bambini non nati”. È vero che egli è contro la società del sorpasso, ma è anche contro la società che legalizza l’aborto, e magari lo eleva a diritto costituzionale. Ho ribadito più volte su questo giornale la necessità di proporre un’ermeneutica integrale della sua riflessione. Lo esige la verità e il rispetto per il suo pensiero. Devo purtroppo constatare che siamo alle solite, nonostante le parole di don Tonino siano di una chiarezza solare e senza possibilità di equivoci.Una società della cura è quella continuamente proposta da Papa Francesco. Come don Tonino, il Pontefice stigmatizza non solo l’atrocità della guerra e la violazione dei diritti dei più deboli e dei più fragili, ma lancia anche invettive contro la dilagante cultura abortista. A tal proposito, basti richiamare il suo ultimo eloquente gesto. Lo scorso 2 novembre, per la seconda volta dopo il 2018, Papa Francesco ha scelto di celebrare la commemorazione dei defunti al Laurentino, terzo cimitero di Roma dopo il Flaminio e il Verano. Come sei anni fa, la sua prima tappa è stata al “Giardino degli Angeli”, area di circa 600 mq dedicata alla sepoltura dei bambini mai venuti alla luce, per una interruzione di gravidanza o per altri problemi durante la gestazione. Molte loro lapidi, prima del nome, hanno la parola “feto”; quasi tutta la prima fila è occupata da bambini del 2024. Le tombe di questi bambini non nati sembra richiamare l’evangelica “strage degli innocenti” (cf. Mt 2, 1-6), voluta dal nuovo Erode, cioè l’ideologia liberal progressista. Il gesto silenzioso e orante del Papa nel “Giardino degli Angeli” davanti alle tombe di questi innocenti è il miglior messaggio per costruire una vera società della cura. 

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