Durante il tuo pontificato affrontasti i barbari Attila e Genserico senza armi, ma con la sola forza della fede e della parola. Come possiamo, oggi, difendere la pace tra le nazioni da pellegrini disarmati, senza cedere alla paura?

Certo, la situazione che vivete oggi è molto differente rispetto a quella che ho vissuto io: i sociologi e analisti vostri contemporanei parlano di una società complessa e di una “policrisi” che attraversa il vostro mondo. Tuttavia, ci sono delle possibilità per essere «persone che portano pace» in maniera disarmata. Innanzitutto, facendo riferimento non solo alla forza della fede, ma anche alla forza della ragione, del diritto internazionale e di quello umanitario. Siete di fronte a una società con il pericolo atomico e dunque qualsiasi tipo di guerra è certamente assurda. 

Poi, bisogna certamente che teniate conto anche di quello che Papa Francesco ha ricordato più volte e ha scritto in una delle sue encicliche, ovvero la necessità di sviluppare l’amicizia sociale, e non soltanto l’amicizia tra gli Stati, ma anche quella tra i popoli. È un invito che faccio anche mio. Infine, è necessario che tutte le religioni, ciascuna con la sua tradizione, si impegnino in uno sforzo comune: perché la religione, qualsiasi tipo di religione, è sempre portatrice di pace.

In tempi di carestia e di timore, conciliasti un’intensa attività di predicazione con la carità verso il popolo di Roma. Quali indicazioni pratiche ci offri per coniugare concretamente annuncio e servizio nella vita pubblica?

So che quella in cui vi trovate a vivere è una società, per molti versi, troppo individualista. State attraversando una forma di declino del senso del bene comune. E allora, in questo contesto bisogna prendere sul serio quello che molti pontefici del vostro tempo, già a partire da san Giovanni Paolo II, hanno definito come «necessità di una nuova evangelizzazione». Bisogna insomma che la Chiesa assuma questo compito perché la situazione vostra richiede un nuovo annuncio del Vangelo. 

Inoltre, come ha detto più volte anche Papa Francesco, bisogna avere uno sguardo attento alla «casa comune», intendendo riferirsi non soltanto all’ambiente, ma anche alla situazione sociale e alla condizione della gente e dei poveri. Dunque, è necessario che ci sia uno sforzo comune in questo senso: anche Papa Leone XIV ha pubblicato l’esortazione apostolica Dilexi te sulla questione della povertà. Sarebbe opportuno leggerla, come anche rileggere la Sollicitudo rei socialis di san Giovanni Paolo II o la Caritas in veritate di Benedetto XVI. Credo che questi miei successori abbiano dato diverse indicazioni, molto utili per riportare il Vangelo al centro e farlo ascoltare dagli uomini del vostro tempo.

Da pontefice promuovesti la comunione tra le Chiese locali. Cosa ci suggerisci oggi per custodire un equilibrio fecondo tra unità e autonomie nel cammino ecclesiale?

Avete appena celebrato un sinodo che ha offerto indicazioni molto precise: ad esempio la necessità di una ripresa del tema della comunione. D’altra parte, ci sono documenti importanti che sono stati pubblicati, come quello a firma del Dicastero per la dottrina della fede sulla “nozione di comunione”. A vent’anni dal Concilio, questo documento ha posto il tema della comunione come uno degli elementi fondamentali di tutta la riflessione conciliare. Ora, questa comunione bisogna viverla a tre livelli: innanzitutto con un dialogo intra ecclesiale nella Chiesa cattolica, poi con un dialogo ecumenico con le altre Chiese e infine con un dialogo interreligioso.

Sei stato il primo papa di cui è stata conservata e trasmessa la predicazione. Come possiamo riscoprire quotidianamente la Parola di Dio, proclamata e meditata, come luce e guida per la vita? Quali accorgimenti consiglieresti in particolare ai giovani?

Intanto sarebbe opportuno che i sacerdoti e i predicatori facessero tesoro di quanto Papa Francesco ha scritto in Evangelii gaudium, esprimendo questioni molto concrete a proposito dell’omelia. Ci sono molte forme per annunciare la parola di Dio, però la più efficace, compresa all’interno della liturgia, è l’omelia. Pertanto, oltre alla catechesi e alle modalità di utilizzo di altri strumenti di comunicazione sociale, è necessario mantenere vivo il contatto con le persone attraverso l’omelia. Consiglierei ai predicatori di far tesoro di quelle indicazioni, utilizzandole anche a beneficio dei giovani. 

Inviterei, poi, i giovani a praticare l’esercizio del silenzio: fare un po’ di silenzio nella loro vita e come diceva sant’Agostino «rientrare un po’ in sé stessi». Dio parla attraverso la Parola, ma anche attraverso quello che suggerisce all’interno di ciascuno di noi. Sarebbe bello e interessante che i giovani – frastornati da tanti rumori, tanti mezzi di comunicazione e continui messaggi – imparassero innanzitutto attraverso il silenzio a sentire la voce di Dio che parla dentro di loro.

Consiglierei loro anche un dialogo con un sacerdote, un direttore spirituale, un amico più grande, un educatore, perché è necessario non soltanto guardare dentro di sé, ma anche avere un colloquio con qualcuno che dall’esterno ci aiuti a discernere la Parola di Dio. 

Infine, sarebbe un utile esercizio per i giovani essere guidati da qualche catechista a vivere insieme come gruppo. Nel vostro tempo si percepisce una sorta di afonia rispetto al dialogo intergenerazionale. Vedo i ragazzi chini sul loro telefonino, ma è assolutamente necessario che si esprimano, parlino, comunichino all’interno della loro comunità di riferimento.

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