Gli studi antropologici da più di un secolo hanno fatto crescere sempre più il numero di coloro che si occupano di tradizioni popolari e quella, che sulle prime appariva come una semplice curiosità di costume, oggi invece si è dimostrata di essere un grande movimento popolare nel quale si può scorgere la storia di tutto un popolo. Infatti, fin dagli anni venti del decorso secolo, studiosi e attenti raccoglitori di usi, costumi, suoni e canti popolari della montagna dell’Angelo con quei loro primi e sagaci studi sulle tradizioni popolari ci hanno tramandato  l’anima più genuina di un popolo, nel grande fascino del tempo natalizio: dalle ‘pettole’ alle filastrocche, agli ‘addìtt’ relativi alle  date delle ricorrenze dei santi Andrea e Nicola, della Cuncetta e di s. Lucia, che segnavano, marcandoli, i giorni mancanti alla grande festa del Natale; e poi  alle ‘Kalèmme’ – dapprima alla ‘mmèrs’, relativa cioè ai 12 giorni che da s. Lucia giungono al Natale e segnano, misteriosamente, il decorso dei mesi dell’anno ormai quasi passato, e alla ‘dritt’, quei 12 giorni successivi al Natale che legano tra loro le due feste del Signore, il Natale e l’Epifania, ‘Kalèmme’ queste simboleggianti i mesi  avvenire del nuovo anno, preannunciando il tempo atmosferico delle stagioni prossime, assai importante nella società contadina del passato, che per la sopravvivenza era legata indissolubilmente alla buona resa dei raccolti. E poi i canti e i suoni ‘pastorali’ degli zampognari fino alla messa ’superaffollata’ nella notte del Natale nel santuario micaelico del Gargano, scavato nella roccia a forma di cuore che da più di 1500 anni richiama fedeli di ogni dove nel segno della penitenza, riconciliazione e pace.

Questo insieme di canti, detti e suoni coinvolgeva tutta la società ‘montanara’ ma erano soprattutto le commoventi melodie inneggianti al Bambinello che dalle chiese si spandevano attraverso i cuori dei fedeli nei quartieri e nelle case: «Mò vèn Natèl/ mò vèn Natèl/ p’ la pr’scèzz dli quatrère/ e li pètt’l ntla fazzatòr/ mamm li stènn e tàtte l’addòr». Si preparavano anche dolci e mangiate degne dell’evento e i garzoni dei fornai andavano in giro per la città con la tavola sulle spalle per trasportare al forno le leccornie natalizie: «Ialzàtev fèmm’n chè passèt la mezzanott, c’ n’ scèm schèl schèl ca è nèt u Bommin a Samm’chèl;  Megghjèr de cafùne/  t’mbrète pètt’le e cal’zun/ Ialzàt’v, megghjere ndìst ndìste/  tùmbrète lu pèn a Crist ./ Jalzàt’ve fèmm’n bèll / m’ttìt fòr la calddarèll».

Per tutto il tempo di Natale, inoltre, le case erano allietate con canzoni natalizie, intonate a varie riprese da tutti i componenti della famiglia, e in particolare dai bambini: «La nòtt d’ Natèl fù na fèsta pr’nc’pèl, nascì Nostro S’gnor nt’ na pov’ra mangiatòr». Questa strofa era seguita da altre che inneggiavano alla festa del Natale e a quella dell’Epifania col Battesimo del Signore “Palòmma bianca bianca chè c’ purt ‘nt ssa lamp. Port l’ugghje sand p’ batt’zzè lu Spir’t Sand … Tutt’ u mùnn è ‘llum’nèt, Parola ver è sand Ave Maria irazia pulèn”.

Giovanni Tancredi, etno-antropologo garganico, nel suo “Folklore garganico” ci tramanda che verso i primi giorni di dicembre, Monte Sant’Angelo si animava più del solito: l’avvenimento straordinario era costituito dall’arrivo di pifferai con la zampogna e la ciaramella che giungevano dall’Abruzzo e dalla Basilicata, e che in piccoli gruppi di due o tre persone giravano per le vie della città. Erano robusti zampognari dal viso abbronzato con cappelli tirati a cono con ‘fettucce attorciglianti’, corpetto di vello di capra, “robone” bruno (ampio mantello scuro di lana di pecora o capra), camicia aperta sul collo, calzoni di velluto marrone o verde abbottonati sotto il ginocchio, calze di lana grossa, lavorate a mano, e ‘cioce’ che salivano attorno ai polpacci.

Uno più anziano, l’altro più giovane, attorniati e seguiti da ragazzini festanti, suonavano le loro allegre canzoni natalizie innanzi a ogni porta e si fermavano dappertutto: davanti alle botteghe, agli angoli delle vie, sulla soglia delle case, dove le famiglie erano raccolte attorno al focolare.

«Il più vecchio, dai capelli bianchi e dalla barba incolta, suonava la classica zampogna di legno di olivo a tre pive, stringendo l’ampio otre gonfiato fra il braccio destro ed il corpo – scrive il Tancredi – mentre il ragazzo imbottava il piffero esile e snello fatto di olivo per metà e di ceraso per l’altra metà con la pivetta di canna marina». Dopo la suonata di ringraziamento, gli zampognari facevano una scappellata ai convenuti, salutando il capofamiglia con un «addio, patrò», con l’intesa di rivedersi l’anno dopo. «Il suono melanconico, dolce della zampogna ed il trillo stridulo ed allegro del piffero – racconta ancora Tancredi – si spandevano per l’aria rigida sotto l’arco limpido del cielo… Gli zampognari vicino alle porte della basilica e a quelle delle chiese suonavano la ‘pasturella’: una semplice melodia che commuoveva profondamente vecchi e giovani e toccava soprattutto la sensibilità semplice ed ogni fibra delle popolane brune e fiorenti».

E la tradizione si tramanda: ogni anno, ancora oggi, rivive nei vicoli del centro storico, e non solo, di Monte Sant’Angelo la magia di Natale con gli Zampognari e le loro dolci melodie: la notte di s. Lucia fanno la loro prima comparsa e poi per tutto il tempo natalizio rallegrano le vie e le strade del centro abitato e soprattutto nelle rappresentazioni del presepe vivente davanti alla basilica micaelica e alle chiese parrocchiali.

Se in passato gli zampognari erano pastori che d’inverno col freddo rigido, per racimolare qualche soldo, visitavano le città e suonando con zampogne e ciaramelle intonavano melodie natalizie, oggi, sono alcuni baldi giovani, amanti della tradizione, che rallegrano i cuori dei residenti.

Ma perché gli zampognari sono associati al Natale? Si racconta che fu s. Francesco d’Assisi a volere tra i figuranti del suo Presepe vivente di Greccio alcuni pastori suonatori di zampogne, caratterizzate dal suono simultaneo di due canne di bordone che emettono il suono con note fisse e di due canne che intonano la melodia (doppio chanter); l’otre, ossia la sacca d’aria della zampogna, è di pelle di capra o di pecora. Lo zampognaro prima di suonare gonfia l’otre che funge da serbatoio d’aria, consentendo in questo modo al suonatore di prendere aria senza interrompere il suono. Questa caratteristica dello strumento garantisce una melodia costante e soprattutto non richiede grandi capacità toraciche, ecco perché riescono a suonarlo anche giovani fanciulli.

Dunque, ogni anno nella città dell’Arcangelo del Gargano si rinnova la tradizione degli zampognari: coppie di suonatori, girovagando per le strade, suonano davanti alle chiese la notte di Natale e nei presepi viventi. Spesso si aggregano agli zampognari cantori e suonatori di canti popolari, che con tamburelli e nacchere coinvolgono la gente cantando e ballando le tradizionali tarantelle.

E son passati anche stamattina sotto la pioggia gli zampognari del Gargano allietando i cuori per la festa ormai vicina e col Pascoli mi han ricordato una lirica struggente da me studiata a memoria alle ‘medie’ di tanti anni fa:

Udii tra il sonno le ciaramelle un suono di ninne nanne/ ci sono in cielo tutte le stelle/ ci sono i lumi nelle capanne/ Sono venute dai monti oscuri le ciaramelle senza dir niente/ hanno destata ne’ suoi tuguri tutta la buona povera gente/…

…Nel cielo azzurro tutte le stelle/ paion restare come in attesa;/ ed ecco alzare le ciaramelle il loro dolce suono di chiesa;/ suono di chiostro, suono di casa, suono di culla, suono di mamma, suono del nostro dolce e passato pianger di nulla/

O ciaramelle degli anni primi/ d’avanti il giorno, d’avanti il vero, or che le stelle son là sublimi, consce del nostro breve mistero; che non ancora si pensa al pane/ che non ancora s’accende il fuoco;/ prima del grido delle campane/ fateci dunque piangere un poco/ Non più di nulla, sì di qualcosa, di Pace e di tante cose!…

Alberto Cavallini

clic qui per l’articolo sul sito diocesano