Omelia di mons. Vito Angiuli nella Messa con la partecipazione del cardinale Domenico Battaglia e 40 sacerdoti giovani della arcidiocesi di Napoli
Chiesa SS. Salvatore, Alessano, 3 settembre 2025.

Eminenza Rev.ma,
cari sacerdoti,
vi ringrazio a nome della nostra Chiesa particolare e mio personale per la vostra permanenza tra noi per alcuni giorni dedicati alla vostra formazione permanente. Vi propongo qualche breve riflessione sul mio incontro e la mia esperienza con il venerabile don Tonino Bello. 

Nella vita accadono avvenimenti non voluti e non cercati, ma che diventano un segno straordinario della presenza del Signore. Una grazia, insomma, che, con l’andare del tempo e il passare degli anni, ci si accorge che è stata del tutto immeritata. E per questo ancora più grande.

Tra gli altri momenti significativi della mia vita, quello di aver incontrato don Tonino è stato uno dei più significativi. Nel periodo in cui lui è stato vescovo a Molfetta, dall’82 al ’93, gli undici anni del suo episcopato, ero uno degli educatori del seminario regionale. Il vescovo, monsignor Magrassi, mi mandò nel settembre dell’82. Insieme ad altri sacerdoti, dovevamo lavorare per il cammino formativo dei seminaristi. Comincia così la mia storia con don Tonino. 

Alcuni ricordi

Non lo conoscevo. Ne avevo soltanto sentito parlare qualche anno prima, quando i vescovi pugliesi cercavano un rettore per il seminario liceale di Taranto. Si faceva il suo nome, un sacerdote di cui si diceva un gran bene: Tonino Bello. Il cognome, per me inconsueto, suscitò la mia meraviglia: un aggettivo che fungeva da cognome. 

Voglio raccontare qualche episodio. Ci sono incontri che lasciano una traccia indelebile. Nel settembre 1982, ho iniziato il mio servizio come educatore al seminario regionale di Molfetta. Don Tonino diventò vescovo nell’ottobre dell’82. Il 30 ottobre fu ordinato a Tricase, in piazza Pisanelli. Partecipammo anche noi del seminario regionale. Mi ritornano alla mente alcune immagini come se si trattasse di sequenze di un film. Eravamo in piazza. Tutti i vescovi concelebranti stavano sui gradini della chiesa di san Domenico. A un certo punto dalla Chiesa Madre avanzò la processione per la celebrazione. Qualcuno mi disse: «Guarda, don Tonino è quello là». La mia impressione, ve la confido con molta sincerità, fu la seguente: mi sembrava che don Tonino dicesse dentro di sé: «Ma sono io quello che deve essere ordinato vescovo?». Avanzava con un’aria tra il meravigliato e il sorpreso. 

La cosa più significativa era l’intesa partecipazione popolare. In seguito, egli stesso parlando di monsignor Romero, lo definì un vescovo fatto popolo. La piazza era gremita e partecipe. Non solo come, di solito, avviene nelle ordinazioni. Avvertivamo che c’era una sorta di partecipazione popolare. Era come se l’ordinazione non avvenisse solo per imposizione delle mani da parte dei vescovi, ma anche da parte del popolo. Era veramente un vescovo ordinato, voluto, desiderato anche dalla gente. In precedenza, gli erano state fatte altre due proposte: quella di Policoro e poi quella di Oppido-Palmi. Ma lui, per motivi familiari — ora tutte queste cose sono scritte nei libri che abbiamo pubblicato— aveva sempre declinato l’invito. Il suo riferimento era soprattutto la mamma, che era anziana, e voleva starle vicino. Quando la mamma morì, lui accettò la nomina a vescovo di Molfetta. Dalle carte degli archivi, risulta che monsignor De Vitis, che era il vicario generale della diocesi, riferisce che già nel 1973, cioè quando don Tonino aveva 38 anni, c’era stata la proposta di farlo diventare vescovo. 

Occorre ricordare che la diocesi di Ugento – S. Maria di Luca rimase sei anni senza vescovo titolare. L’iter, tuttavia, è andato avanti, fino a quando, finalmente, nell’82, don Tonino divenne vescovo. Quindi la prima impressione è questa: la sua ordinazione era desiderata dalla tutta Chiesa diocesana. Nei libri che ho scritto, tutte queste cose sono dette anche con i documenti alla mano. Questo è il mio primissimo ricordo. 

Il secondo avvenne a Molfetta all’inizio del suo episcopato. Dopo alcuni giorni dal suo ingresso in diocesi a Giovinazzo, uno dei paesi della diocesi, emerse un problema di carattere sociale. Alcuni lavoratori stavano per essere messi in cassa integrazione. Il vescovo prende le parti dei lavoratori. Va a fare il sit-in sulla ferrovia e parla con il padrone. In seminario ci domandavamo: «Ma chi è questo vescovo?  Cosa vuole? Da dove viene? Che c’entra lui con il lavoro? Perché si mette in mezzo?». C’era tutto un rumoreggiare. 

Per chi, come noi, non lo conosceva si trattava di una assoluta novità. In realtà qualcosa del genere era già accaduta ad Ugento. Come egli dirà più volte, era la figura di un vescovo “inserito nelle vene della storia”. Dentro la realtà. La realtà concreta. La realtà, in quel caso, di una gente che viveva una tragedia: quella del lavoro. Questo è il secondo ricordo che ho impresso nella mia mente. Da una parte, la dimensione popolare dell’ordinazione. E dall’altra, il riferimento non soltanto alla dottrina — perché certo, il vescovo è maestro della fede, — ma anche a un vescovo che è dentro le coordinate di una storia concreta. In quel caso, la storia di Giovinazzo. Un vescovo, come si dice oggi, che si “sporca le mani”. Non fa solo un messaggio, non manda semplicemente un comunicato, ma lui, per primo, prende l’iniziativa. Questo ci colpì molto. Così come ci colpirono, tutti gli altri suoi gesti che abbiamo vissuto negli anni seguenti.

Una cosa bella di quelli anni erano i suoi articoli su “Luce e Vita”, il giornalino della diocesi. Ora sono stati raccolti nei libri. Allora noi — seminaristi ed educatori — siamo stati, in un certo senso, presi per mano durante tutti gli undici anni del suo episcopato. Ogni sabato, don Tonino scriveva un suo articolo. E noi, ogni sabato, ascoltavamo le sue riflessioni, sempre nuove e sorprendenti. Anche gli educatori, che lo conoscevano ed erano suoi amici come monsignor Agostino Superbo, che era il rettore, si meravigliavano. Una volta ci confidò: «Ma da dove le va a prendere tutte queste cose?». 

Mi è rimasta nella mente una predicazione quaresimale, non ricordo bene di che anno. Di solito la predicazione quaresimale tocca il tema della conversione del cuore e della mente. Aspettavamo che ci parlasse di queste cose. Ma don Tonino cominciò a parlare dei “piedi di Giovanni” poi quelli di Pietro, di Giuda e di Gesù. Insomma, tutta la predicazione quaresimale fu sui piedi. È una cosa un po’ insolita, no? Abituati com’eravamo a sentire parlare della conversione del cuore, della mente era sorprendente che lui parlasse dei piedi! 

Ricordo i molti incontri che noi educatori del seminario abbiamo fatto insieme con tutti i vescovi pugliesi. Lui interveniva sempre e diceva qualcosa che era interessante con un’immagine, che restava impressa nella mente. Mi ricordo una volta: avevamo una grossa discussione su come noi educatori dovevamo comportarci per una situazione particolare. E lui se ne uscì con questa espressione: «Non vi preoccupate. Non dovete prendere la questione dal collo della bottiglia». Non capimmo subito cosa volesse dire. In seguito fu chiaro: voleva dire di non stare sempre a cercare nei vescovi la soluzione dei problemi. Tocca a voi assumervi la responsabilità. 

Tra tutti gli altri ricordi – secondo me dovremmo dirlo con un po’ più insistenza – c’è l’ultima parte della sua vita: quella della sofferenza. Della sua sofferenza, non quella degli altri. Ci colpì il modo in cui egli affrontò il dolore e la malattia, come visse la sofferenza nella sua carne. Secondo me, fu l’esempio più grande. Quando ebbe la notizia, lo prese un senso di timore. I santi non sono dei supereroi. Sono uomini, come Gesù nel Getsemani. Poi, però, la testimonianza che lui ha dato è stata quella di vivere la sofferenza in una maniera pasquale. Certamente anche voi avete ascoltato il suo ultimo discorso: «Non andiamo verso la catastrofe, non andiamo verso la distruzione».

I cinque amori

Come possiamo sintetizzare in modo semplice il suo insegnamento? Di solito ricorro all’immagine delle cinque dita della mano. 

Don Tonino ha amato e ha insegnato ad amare la vita. Soprattutto nei discorsi ai giovani ha insistito sulla necessità di vivere in modo pieno e inteso. Non vivacchiare, non rosicchiare la vita, ma bruciare e spenderla con un amore ardente e totale. Si tratta di un messaggio particolarmente significato per i giovani “a bassa tensione” del nostro tempo.  

In secondo luogo ha insistito sulla necessità di mantenere forti i legami con la propria terra. Entra qui in gioco il tema delle radici e degli affetti. In un discorso dice esattamente che il vescovo deve morire nel luogo dove il Signore lo ha mandato. Quindi, a Molfetta. Però il luogo della sepoltura, il luogo definitivo deve essere quello del suo paese, tra la sua gente, tra gli affetti più cari. Il legame con il proprio territorio non ti chiude in un piccolo angolo della terra, ma ti apre alla realtà mondiale. Partendo però da delle radici, dagli iniziali punti di riferimento. Questo è molto importante ricordarlo ai giovani di oggi. Amare le realtà piccole. Pensate ai giovani delle vostre parrocchie a cui dovete insegnare ad amare la vostra realtà, con tutte le sue componenti, positive e negative. Quando l’amore è concreto, aiuta ad amare anche ciò che è distante: il mondo lontano, partendo da ciò che è vicino. 

Il terzo amore — naturalmente non c’è bisogno di fare lunghi discorsi — è la pace. Sono libri interi che sono stati scritti su questa dimensione. Don Tonino riassume il suo pensiero sulla pace con la formula “convivialità delle differenze”. La pace è, sostanzialmente sedersi a una stessa tavola, mangiare lo stesso pane, vivere il riconoscimento dell’altro come una realtà fraterna. La pace è convivialità. In quanto sacerdoti, non dovremmo parlare solo della convivialità in riferimento ai problemi socio-politici, ma anche della convivialità fra noi sacerdoti? Perché non potremmo coniugare in senso presbiterale la dimensione della convivialità? Cioè come incontro, come affratellamento, come riconoscimento gli uni degli altri. 

Il quarto amore è quello verso i poveri. Anche qui non c’è bisogno di dire molte cose. Questo riferimento lo ha accompagnato in tutta la sua esistenza. Già a Ugento e non solo a Molfetta. Attenzione a questo! C’è una lettura un po’ distorta, quando si legge la figura di don Tonino fissandola soltanto sui gesti compiuti a Molfetta. Molte cose le aveva vissuto a Ugento. Non bisogna fare un discorso un po’ ideologico, che non tiene conto della realtà storica, sulla quale sto cercando di insistere con le mie pubblicazioni.

L’ultimo amore, naturalmente, è Cristo. Di lui, don Tonino sottolineava che bisognava non solo amarlo, ma innamorarsi. “Innamoratevi di Cristo!” Non soltanto “amatelo”, ma “innamoratevi di Cristo!” 

Ecco, io penso che siano stati questi gli amori di don Tonino. Ai ragazzi dico: guardate il palmo della mano e contate le dita. Sulle dita trovate queste cose: la vita, la terra, la pace, i poveri e Cristo. Cari sacerdoti riportate questo messaggio ai vostri ragazzi. Forse, sarà più facile parlare a loro.

L’ultima cosa che voglio dire la prendo dal santo di oggi.  San Gregorio Magno nella Regola Pastorale, un libro straordinario e ancora molto attuale, afferma: «Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali». È bello questo “dentro e fuori”. È un viavai. Mosè va dentro, e va fuori. Dentro, rapito dalla contemplazione. Fuori, pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro per la preghiera. Fuori per la carità. Dentro, i misteri di Dio. Fuori, le realtà del mondo.

Don Tonino ha coniato una parola un po’ strana: non “contemplazione”, “contempl-attività”. Parola che va spiegata. In sostanza, richiama l’insegnamento di san Gregorio: dentro e fuori. Non soltanto dentro. Ma nemmeno soltanto fuori. La vita cristiana e quella ministeriale si svolgono all’interno di questo circolo vitale: stare davanti al tabernacolo, andare nella tenda, vivere l’intimità con Dio, per poi andare verso i poveri. Dentro e fuori. Mi raccomando, cari sacerdoti. Viviamo una sorta di schizofrenia: c’è chi crede che bisogna stare solo dentro, e chi vuole stare solo fuori. No! Contempl-attività. O, se volete: contemplazione e carità. 

clic qui per l’articolo sul sito della Diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca