Ringrazio vivamente S.E. Mons. Giuseppe Satriano, fratello carissimo, per l’amicizia e il sostegno sempre manifestato nei miei riguardi, e in particolare oggi per l’invito a celebrare questa Santa Messa nel contesto della festa di San Nicola, che quasi riassume il volto cristiano di Bari. Ogni città, infatti, è come una unità vivente, non un semplice aggregato di case e spazi, con una storia propria e una peculiare vocazione. La storia e la vocazione della Città di Bari sono segnati in modo inconfondibile dalla figura e dal culto di San Nicola. Perché un aggregato di individui diventi un popolo, d’altra parte, occorre una comunione di cose amate, e San Nicola offre a questa città l’ardore di una carità che unisce.

Saluto con filiale ossequio S.E. Mons. Francesco Cacucci, che ho sempre guardato con ammirazione per il suo amore alla Chiesa e lucidità di giudizio.

Il mio saluto deferente a voi, gentili autorità e a voi, cari fratelli tutti in Cristo, la pace, la misericordia e la pace di Cristo.  

Sono venuto come pellegrino, per mendicare dalla bontà di Dio e per l’intercessione di San Nicola, per me e per tutti, in questo scorcio di Anno Santo, il dono della «speranza [che] non delude» (Rm 5,5).

Il Giubileo è stato per tutti l’occasione per il rinnovarsi dell’incontro vivo e personale con il Signore Gesù, per ritrovare ragioni ed energie di gioia e vita, di giustizia e cambiamento. È Gesù Cristo la «nostra speranza» (1Tm 1,1). È Lui che la Chiesa ha la missione di annunciare e far incontrare sempre, ovunque e a tutti. A 1700 anni dal Concilio di Nicea, del quale San Nicola fu protagonista e intrepido difensore, occorre fondarci sul nucleo fondamentale, essenziale, della nostra fede, come ha detto Papa Leone, per comunicarne la gioia: «Si tratta di porre Gesù Cristo al centro e […] aiutare le persone a vivere una relazione personale con Lui, per scoprire la gioia del Vangelo. In un tempo di grande frammentarietà è necessario tornare alle fondamenta della nostra fede, al kerygma. Questo è il primo grande impegno che motiva tutti gli altri: portare Cristo “nelle vene” dell’umanità» (17 giugno 2025). Portare Cristo nelle vene dell’umanità significa riconoscere, come dice S. Paolo, che Egli è «la pienezza di tutte le cose» (Ef 4,10), farlo dialogare con il sangue che ci dà vita e sostiene il nostro cammino, gli interrogativi e le passioni, le speranze e gli affetti fondamentali del cuore umano. Porre Cristo al centro fu l’unica preoccupazione di San Nicola, nella carità con i vicini di casa come con i propri fedeli, nelle argomentazioni teologiche come nel dialogo con i compagni di viaggio in mezzo al mare tempestoso.

In questo Anno Santo abbiamo imparato a declinare la speranza cristiana. Mi permetto di segnalare alcune sue dimensione e condizioni.

Felicità

Ogni animo cristiano, come quello di San Nicola, arde della speranza di Cristo come felicità ultima degli uomini e quindi del desiderio che ognuno di loro possa incontrarlo e amarlo. Occorre però liberare questa parola dalla corruzione di un certo sentimentalismo che misura la verità dell’esperienza con il metro dell’emozione. Ha detto il Papa ai giovani a Tor Vergata, quest’estate: «C’è una domanda importante nel nostro cuore, un bisogno di verità che non possiamo ignorare, che ci porta a chiederci: cos’è veramente la felicità? Qual è il vero gusto della vita? Cosa ci libera dagli stagni del non senso, della noia, della mediocrità?». In ogni esperienza comprendiamo che «la pienezza della nostra esistenza non dipende da ciò che accumuliamo né […] da ciò che possediamo (cfr Lc 12,13-21). È legata piuttosto a ciò che con gioia sappiamo accogliere e condividere (cfr Mt 10,8-10; Gv 6,1-13). […] Carissimi giovani, la nostra speranza è Gesù». Il cammino della vita cristiana corrisponde a questa scoperta. La felicità è Gesù, non ciò che possiamo, il potere che esercitiamo, il piacere che pretendiamo. La felicità vera consiste in ciò che ci realizza profondamente, cioè nell’amore totale, per sempre, fecondo. Poiché Dio è amore, la vocazione all’amore è ciò che fa dell’uomo l’autentica immagine di Dio: egli diventa simile a Dio nella misura in cui diventa qualcuno che ama. Non il possesso, o il potere, o il piacere, ma l’amore vero compie la felicità dell’uomo. Serve una nuova confidenza con la nostra aspirazione alla felicità per sentire l’incontro con Gesù Cristo come intimamente connesso all’esperienza di un amore ricevuto e donato in cui consumare l’intera esistenza. San Nicola ha dato tutto a Cristo perché un amore infinito merita la vita intera, per «edificare il corpo di Cristo» (Ef 4,12).

Magnanimità

Diceva il Papa sempre a Tor Vergata: «Aspiriamo continuamente a un “di più” che nessuna realtà creata ci può dare; sentiamo una sete grande e bruciante a tal punto, che nessuna bevanda di questo mondo la può estinguere. Di fronte ad essa, non inganniamo il nostro cuore, cercando di spegnerla con surrogati inefficaci! Ascoltiamola, piuttosto! Facciamone uno sgabello su cui salire per affacciarci, come bambini, in punta di piedi, alla finestra dell’incontro con Dio. Ci troveremo di fronte a Lui, che ci aspetta, anzi che bussa gentilmente al vetro della nostra anima (cfr Ap 3,20). Ed è bello, anche a vent’anni, spalancargli il cuore, permettergli di entrare, per poi avventurarci con Lui verso gli spazi eterni dell’infinito». Che bello! Non inganniamo il cuore, ma facciamo perno sulla nostra aspirazione a un “di più” per incontrare il volto di Cristo che ci aspetta. Per sperare occorre la virtù della magnanimità, che consiste nel tendere alle cose grandi, infinite. Il magnanimo osa e rischia, sceglie tra le tante possibilità della vita le più grandi. Cose grandi, non mediocri, brama il cuore dell’uomo. San Pier Giorgio Frassati diceva che bisogna vivere, non vivacchiare. Bisogna chiedere ai santi questa grande misura della mente e del cuore. La pigrizia spirituale di tanti è una sorta di odio verso la propria grandezza, la propria altissima vocazione. «Non accontentatevi delle piccole cose. Dio le vuole grandi. Se sarete ciò che dovete essere metterete fuoco in tutta Italia!», scriveva Santa Caterina a un suo interlocutore. San Nicola ci insegni a vivere per cose grandi, per la verità, la giustizia, l’amore. La cosa più grande per cui vivere e sacrificare è arrivare «tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).

Umiltà

L’umiltà è il riconoscimento del proprio limite e dell’infinita distanza tra Dio e la sua creatura, e quindi porta a sperare solo da Dio ciò che l’uomo profondamente desidera e attende. Speriamo molto ma cosa possiamo da soli davvero conquistare e ottenere? Il termine e il compimento vero di ogni autentica speranza è Gesù Cristo e solo Lui può attirarci a sé, solo lui può donare quel che sospiriamo. L’umiltà instilla nel nostro animo una grande attenzione alla realtà, non per proiettare i nostri pregiudizi, ma per riconoscere la volontà di Dio per il bene degli uomini. Per godere della gioia e della libertà, della giovinezza eterna, occorre invocare di avere la semplicità della Vergine Madre, cosciente che il Signore Onnipotente aveva fatto per lei cose grandi perché aveva guardato l’umiltà della sua serva (cf. Lc 1, 48-49). Le cose più grandi nella più grande umiltà. «Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”» (Lc 1, 38).

Creatività

La speranza cristiana, dentro le occupazioni e gli ambienti della vita fa sempre nascere qualcosa di nuovo, una nuova politica, una nuova cultura, una nuova idea di educazione e di riscatto dei poveri, una nuova economia e nuova organizzazione del lavoro. La speranza immagina sempre una nuova configurazione della realtà. La speranza che non delude, quella fondata sull’evento di Cristo, a contatto con tutti gli aspetti della vita, li rinnova profondamente perché non è fuga dal mondo, ma ragione di impegno, fermento di novità. San Bonaventura paragona la speranza cristiana alle ali degli uccelli che per natura si dirigono verso il cielo e si allargano su entrambi i lati per portare in alto gli occhi, per guardare in modo completo la realtà; il cuore, per amare vivacemente; le mani, per lavorare con virtù; la voce, per parlare secondo verità; il volto, per mostrare il nostro comportamento (cf. Sermone 14, 1-2). L’intera nostra persona è attirata in alto dalla speranza e rinnovata nel suo rapporto con le cose, le persone, la società.

Il culto di San Nicola chiama la città e la Chiesa di Bari a essere protagonisti in particolare di un dialogo di pace e di cooperazione tra i popoli nell’area del Mediterraneo, e in particolare nel rapporto con l’Oriente. La sfida è che la diversità delle culture e delle storie possa essere riconosciuta come motivo di ricchezza reciproca e non di estraneità. San Nicola ci aiuti a sviluppare azioni nei quali i valori delle civiltà del Mediterraneo, che incontriamo sempre più spesso incarnate nelle popolazioni che vivono nelle nostre città, siano riconosciute e valorizzate come patrimonio comune e occasione di incontro.

«Tenetevi pronti perché nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Lc 12,40). La speranza cristiana dà valore a ogni istante e ci insegna a guardare il futuro con fiducia non ingenua ma operosa e responsabile, ad attendere, vincendo ogni forma di disperazione e di presunzione, l’avvento del Regno, e in questa attesa rinnovare la città, l’Italia e il mondo intero. San Nicola ci sia maestro e padre, fratello e amico di questa speranza che attira in alto.

Giuseppe Baturi

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