Omelia nella Messa esequiale del diacono permanente Michele Casto.

Raccogliendo i sentimenti di tutta la comunità diocesana, 
mi rivolgo in modo particolare a voi, cari famigliari: a lei signora Antonietta, moglie del diacono Michele, a voi sue figlie e a tutti voi parenti. Celebriamo questa liturgia esequiale con il cuore colmo di dolore, ma con la speranza che promana dalla luce del Signore Risorto che ci viene incontro con la sua Parola e nell’Eucaristia. Nella sua Pasqua ci viene offerto il senso e il significato della nostra esistenza. Con questa certezza di fede, che ravviva la nostra speranza, consegniamo all’infinito amore del Padre l’anima del fratello Michele, diacono permanente della nostra Chiesa ugentina. 

Un solo dono, una molteplicità di espressioni 

Chi è il diacono permanente? Il Vangelo, la dottrina e l’esperienza della Chiesa ci esortano a considerarlo “servo inutile a tempo pieno”, secondo l’immagine proposta da don Tonino Bello, e “ministro della soglia”. Il primo aspetto sottolinea che il diacono permanente è un battezzato interamente dedicato alla carità, al servizio dei poveri, degli ammalati e dei bisognosi, testimoniando con la vita l’amore verso Dio e verso il prossimo. Il secondo aspetto, qualifica il ministero del diacono come un servizio di mediazione.

Unico è il dono di grazia, molteplice la sua espressione ministeriale. Le differenti forme di espressione della vita diaconale si possono riassumere in tre modelli: il “modello del samaritano”, di chi è più sensibile alle necessità del prossimo; il “modello profetico” di chi è più propenso all’evangelizzazione ed è più attento alle sfide culturali; il “modello pastorale” di chi è più disponibile a un ruolo di animazione della comunità. In tutti i casi occorre realizzare un giusto equilibrio tra l’impegno ministeriale, il lavoro professionale e la cura delle relazioni familiari. In quanto partecipe del sacramento dell’ordine appartiene al clero, sociologicamente vive come persona di frontiera in modo laicale, soprattutto negli ambienti di lavoro. Pertanto bisogna, da una parte, evitare la “sostituzione presbiterale” che trasforma i diaconi in “quasi-sacerdoti”» e, dall’altra, la “sostituzione apostolica” che li propone come dei “super-laici”. È necessario, invece, che egli dia armonia alla sua vita diaconale vivendo con gioia il sacramento del matrimonio, esercitando con competenza e professionalità il proprio lavoro, prestando il proprio servizio ministeriale alla comunità cristiana. Egli è chiamato a partecipare alla missione evangelizzatrice della Chiesa secondo la sua specifica identità. Egli porta dentro la Chiesa i problemi e il vissuto degli gli uomini e, con la persona e il suo stile di vita, annuncia al mondo la bellezza del Vangelo. Così Michele ha vissuto la sua vita e ha esercitato il suo ministero diaconale. 

Il diacono, servo inutile a tempo pieno

Ricordo, con un senso di viva commozione, la sera della sua ordinazione diaconale, ricevuta alla vigilia della festa dell’Epifania (5 gennaio 2012) insieme agli altri due diaconi, fra Donato Aceto e il caro Luigi Bonalana, che per molti anni è stato il mio prezioso e valente segretario. Nella mia esortazione omiletica li esortai a onorare e a servire cioè ad avere la consapevolezza del dono di grazia ricevuto e a mettere a disposizione di questo mistero ineffabile tutta la propria persona, ritenendo che onorare e servire formino un’endiadi: onorare, infatti, vuol dire servire e servire è la migliore forma di dare e rendere onore. 

Rivolgendomi in modo particolare a lui e a Luigi, in quanto coniugati, li esortai con queste parole: «Dovete servire le vostre mogli e i vostri figli, con la stessa intensità che ponete per onorare il Signore. La vostra sia una famiglia esemplare. I compiti ministeriali nella comunità cristiana vanno assolti non dimenticando la responsabilità verso il proprio nucleo familiare. Servire la comunità cristiana e servire la propria famiglia sono due facce della stessa medaglia»[1].

Così è stato per Michele. A 52 anni si è consacrato al Signore per diventare nella Chiesa e nel mondo segno vivente dello stile di vita di Gesù che «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti» (Mc 10,45). Ha continuato a vivere con la sua famiglia e a servire questa comunità parrocchiale negli ambiti della liturgia, della catechesi ai ragazzi, della carità, della cura amorevole ai poveri, agli ammalati, dell’animazione missionaria e all’interno della Caritas come referente diocesano del comitato antiusura. Con delicatezza e bontà d’animo, con impegno e determinazione ha cercato di rendere presente lo stile di servizio di Gesù nella Chiesa e ha dato la sua bella testimonianza di fede nella società di oggi, sempre più ripiegata su sé stessa e attratta dalla materialità del vivere. 

Il diacono, ministro della soglia

L’identità del diacono permanente è caratterizzata, in modo particolare, dalla sua funzione di mediazione. Egli è il “ministro della soglia”, vive contemporaneamente il suo duplice legame con la Chiesa e con il mondo. 

Per entrare in un ambiente, così come nell’incontro con l’altro è importante discernere i passaggi, le frontiere, le soglie. Ogni ambiente ha un suo significato e ogni persona è un mistero difficile da attraversare. La soglia rappresenta così una metafora che pervade la vita di tutti i giorni, sia come esperienza reale, sia come valenza simbolica. Essa separa e unisce, indica un limite da superare e segna un punto di incontro. Richiama i molteplici passaggi che bisogna attraversare e segna le tappe e le fasi della vita che naturalmente si succedono.

In quanto un luogo di passaggio, la soglia indica un movimento che va da dentro a fuori e, ovviamente, da fuori a dentro. La soglia è un punto delicato di passaggio tra il noto e l’ignoto, tra il proprio e l’altro, tra il domestico e l’avventuroso. Non si attraversa una soglia se non si avverte una affinità e si percepisce un sentimento di accoglienza con l’ambiente e le persone che si presentano davanti. La soglia ha anche il suo fascino: attira profondamente, in qualche caso anche irresistibilmente. 

Talvolta l’attraversamento comporta un eventuale pericolo e richiede una forma di attesa. L’ingresso, l’attraversare una soglia, mi vede attore di qualcosa di cui non posso prevedere fino in fondo le conseguenze. La soglia indica così una situazione di crisi che può diventare un’occasione per cogliere l’intensità del momento e per descrivere il mondo in un modo nuovo. Sulla soglia si può esitare, stare, aspettare, restare immobili perché il passaggio sembra un evento senza senso o non viene subito compreso.

La prospettiva biblica, dalla Genesi all’Apocalisse, da un estremo all’altro della Scrittura, ci racconta di tante porte da attraversare e delle differenti tipologie delle soglie. Ci sono le soglie domestiche che attraversiamo più volte al giorno. Anche se oggi, da un punto di vista architettonico, le abitazioni hanno sempre meno un ingresso costituito da un corridoio, rimane il tema del passaggio tra le varie stanze (salone, cucina, sala da pranzo o da letto) in cui si svolge la vita quotidiana. Vivere sapientemente questi luoghi vuol dire saper dare una forma cristiana alla propria esperienza familiare. 

Ci sono soglie sacre. Alcune, come quella della clausura, si attraversano una sola volta, altre, come quella della chiesa parrocchiale, che si percorrono più volte al giorno. L’attraversamento di queste soglie non è un semplice spostamento da un posto all’altro, ma il passaggio da un compito all’altro, da un rito all’altro, da un ministero all’altro. Liturgia, catechesi, carità sono i diversi ambiti dell’impegno apostolico del diacono permanente. Egli deve dare il suo contributo in tutti questi compiti ministeriali.   

Ci sono, infine, le soglie personali quelle che riguardano la relazione con sé stesso e con gli altri. In questo caso, l’immagine della soglia suggerisce che l’incontro con l’altro richiede una certa delicatezza, una discrezione, una capacità di ascolto. Allora, stare sulla soglia racconta un modo di essere cercatori di Dio e dell’uomo. Stare sulla soglia rappresenta, dunque, una dimensione dello spirito che ci fa compagni di uomini e di donne che hanno la passione di interrogarsi, di ricercare, di scoprire. La soglia ci rimanda alla terra sacra di ogni donna e di ogni uomo. Anche queste sono soglie da venerare. C’è una soglia dell’altro che non è lecito oltrepassare, una terra che non è consentito invadere, una diversità che va rispettata. Dio non sfonda le porte, ma bussa in silenzio e rispetta la libertà. 

La vita stessa è un attraversamento di soglie, un passaggio di porta in porta. Ed anche la morte non è altro se non l’attraversamento dell’ultima porta. Santa Teresa d’Avila, nel suo libro Castello interiore, intende il cammino spirituale come l’attraversamento di sette stanze[2]. Così ella scrive: «Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un sol diamante o di un tersissimo cristallo, nel quale vi siano molte mansioni, come molte ve ne sono in cielo […]. Questo castello risulta di molte stanze, alcune poste in alto, altre in basso ed altre ai lati. Al centro, in mezzo a tutte, vi è la stanza principale, quella dove si svolgono le cose di grande segretezza tra Dio e l’anima»[3].

L’immagine teresiana richiama il testo dell’Apocalisse nel quale Cristo risorto sussurra all’anima: «Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Cristo si fa pellegrino e, stando fuori, bussa, vuole entrare, senza forzare e aprire la porta. Propone una compagnia senza nessuna imposizione. Veste i panni del visitatore. Ѐ l’amante e l’amato per eccellenza che fermandosi sulla soglia interpella la nostra libertà. Nello stesso tempo, invita ad entrare in lui. Ci immette in una scena dal sapore eucaristico. Vuole essere il commensale del banchetto finale, escatologico, che ha già una sua anticipazione nella celebrazione del pasto eucaristico. 

Ora, il Risorto apre a Michele l’ultima porta! Quella porta è lui stesso (cfr. Gv 10, 8-10). San Girolamo nella Vulgata traduce: «Ego sum ostium». In latino, ostium viene da os – oris e indica non solo la bocca, ma più genericamente il volto. Cristo è la porta, lo spazio di incontro, l’apertura nel senso più ampio della parola. È la porta del paradiso. Michele ha amato e servito Cisto. Accogliendo il suo invito, oltrepassa la soglia, entra nella gioia del suo Signore. Riposi per sempre con lui, nella sua dimora di luce e di pace. 


[1] V. Angiuli, Vi ho chiamati amici. La vocazione e il ministero sacerdotale. Decimo anniversario del ministero episcopale, 2010-2020 a cura di S. Ancora, Edizioni VivreIn, Monopoli 2020, pp. 110-111.

[2] «Benché non si parli che di sette mansioni, ognuna di esse si suddivide in molte altre, collocate in basso, in alto e ai lati, con bei giardini, fontane ed altre cose così deliziose da farvi bramare di struggervi tutte, in lode a quel gran Dio che le ha create a sua immagine e somiglianza», Teresa d‘Avila, Castello interiore, Epilogo, 3.

[3] Ibidem, Prime Mansioni, I, 1-3.

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