Omelia nella Messa Crismale
Chiesa Cattedrale di Ugento, mercoledì 16 aprile 2025.
Cari sacerdoti, diaconi, consacrati e fedeli laici,
la scena che si svolge nella sinagoga di Nazaret è fortemente evocativa e paradigmatica. Cristo è al centro dell’assemblea sinagogale e, come un nuovo Mosè, sceglie dalla Scrittura un passo del profeta Isaia che lo riguarda, lo fa risuonare davanti all’assemblea e lo interpreta autorevolmente. Tutti sono riuniti attorno a lui, ascoltano la sua voce e rivolgono i loro sguardi verso di lui. L’accento è posto, da una parte, sul valore e il significato della missione di Cristo e, dall’altra, sul modello di Chiesa che deve esprimersi in tutte le generazioni. La parola risuona, la profezia si compie, il mistero si svela.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me» (Lc 4,18)
Il brano del profeta Isaia si apre in modo solenne: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha consacrato con l’unzione per evangelizzare i poveri» (Lc 4,18; cfr. Is 61,1). Come all’inizio della creazione del mondo lo Spirito aleggiava sulle acque (cfr. Gen 1,2), così all’inizio della missione di Gesù lo Spirito Santo si posa su dui lui. L’unzione dello Spirito produce un duplice effetto.
Il primo riguarda l’azione dello Spirito che guida il cammino del popolo di Dio, purifica il cuore e crea armonia nel mondo. Lo Spirito, infatti, sostiene la missione di Cristo e della Chiesa, libera i credenti dalle debolezze, dalle fatiche, dalle povertà interiori (cfr. Os 14,5) e rende profumata la vita[1]. In tal modo, lo Spirito Santo che è la «divina e musicale Armonia»[2] stringe ogni cosa in un abbraccio fraterno e stabilisce un legame tra coloro sui quali ha riversato la sua unzione e, attraverso di loro, crea armonia nel mondo intero, superando ogni forma di divisione e di contrapposizione. L’armonia non è una virtù tra le altre, è molto di più. «Senza di essa, tutte le altre virtù non valgono assolutamente nulla»[3].
Il secondo effetto dell’unzione dello Spirito Santo è ricentrare tutto in Cristo, facendo di lui il cuore dell’universo e della storia. In ogni tempo, occorre che Cristo sia il centro della Chiesa e del mondo. Peer questo è necessario che, con un’attenzione piena di attesa, «gli sguardi di tutti siano fissi su di lui» (Lc 4,20). Lo suggerisce il verbo greco, ἀτενίζω, tipico del linguaggio di Luca[4]. Il suo significato indica un orientamento ben preciso: essere attenti, guardare intensamente, volgere e fissare lo sguardo in avanti perché sta per compiersi qualcosa di assolutamente nuovo. Nella solenne ed intima atmosfera di questa liturgia crismale, anche noi siamo chiamati a prestare attenzione al mistero che si manifesta davanti ai nostri sguardi.
Il duplice movimento dello sguardo
Ponendo al centro la celebrazione degli oli, la celebrazione crismale invita a considerare l’azione dello Spirito e a tenere lo sguardo fisso su Gesù. Contemplando l’azione dello Spirito che unge la persona di Cristo, siamo orientati a meditare sul suo sacerdozio, attratti dalla bellezza incomparabile del suo mistero, consapevoli della sua unicità e affascinati dalla sua insuperabilità. Nello stesso tempo, come in uno specchio, siamo invitati a riconoscere la nostra dignità sacerdotale di battezzati e di ministri ordinati, in modo da vivere tutta l’esistenza correndo «con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù» (Eb 12,1-2).
Questa espressione mette in campo tre verbi interdipendenti tra di loro: correre, perseverare e fissare lo sguardo. Non bisogna attardarsi, ma spingersi decisamente in avanti, senza stancarsi e senza demordere dallo sforzo che la corsa richiede. Per non correre invano bisogna avere con chiarezza davanti agli occhi della mente e del cuore la meta da raggiunge. Essa attira, indica l’orientamento e la direzione da prendere e infonde coraggio nel perseguire il fine che si intende raggiungere. Avere lo sguardo fisso al traguardo è la condizione della riuscita della corsa. Questo spiega perché in molti passi del Nuovo Testamento sono utilizzati i verbi legati agli occhi: vedere, osservare, guardare, notare, fissare lo sguardo. Il movimento dello sguardo è duplice. In primo luogo è Gesù a volgere lo sguardo verso di noi. Di conseguenza, è per noi possibile fissare lo sguardo verso di lui.
a) Lo sguardo di Gesù verso di noi
Dobbiamo innanzitutto avvertire di essere sotto lo sguardo di Cristo, come il giovane ricco durante la vita pubblica di Gesù e come Pietro durante la sua passione. Il primo episodio, presente in tutti i vangeli sinottici (cfr. Mt 19,16-22; Lc 18,18-23), si colloca nel capitolo decimo del vangelo di Marco. Dopo l’incontro e il dialogo con il giovane, «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (Mc 10, 21). È uno sguardo pieno di dolcezza che riassume tutte le gradazioni dell’amore umano: lo sguardo affettuoso di una madre verso il suo bambino, quello carico di fierezza di un padre rivolto al figlio che cresce, lo sguardo penetrante di un innamorato che beve con gli occhi il volto dell’amata. Lo sguardo di Gesù è la sintesi di tutto questo e si rivolge verso chi è in sincera ricerca del regno di Dio e, da sempre, è impegnato a osservare i comandamenti di Dio. Si tratta, dunque, di uno sguardo di predilezione, di elezione, di stima e, in ultima analisi, d’amore. Gesù vede in quel giovane il suo potenziale, il capolavoro che è in lui, la perfetta statura di uomo nascosta nell’intimo della sua anima.
Il secondo episodio accade nel cuore degli avvenimenti della passione di Gesù. Quando fissa lo sguardo su Pietro, dopo il suo rinnegamento. Diversamente dagli altri sinottici, dove l’elemento fondamentale che permette all’apostolo di prendere coscienza del suo rinnegamento è il canto del gallo, nel Vangelo secondo Luca ciò che è decisivo è lo sguardo di Gesù (cfr. Lc 22, 61): uno sguardo intenso, non di giudizio e di condanna, ma di misericordia, di tenerezza e di dolcezza.
L’amore non opera una giustificazione a buon mercato, ma brucia come un fuoco ed è capace di far cogliere anche chi è amato, ma che non corrisponde e persino rinnega il dono d’amore, che l’amore è più forte di ogni mancanza, di ogni tradimento ed anzi ama ancora di più, proprio quando non è ricambiato. Gesù guarda Pietro nella sua fragilità per ricordagli che doveva confidare in lui, non in sé stesso. Con quegli occhi pieni d’amore, Gesù ricorda a Simone quanto gli aveva detto nell’ultima cena quando gli aveva preannunciato il rinnegamento e gli aveva confidato di aver pregato per lui, perché non perdesse la fede e fosse così in grado di confermare i fratelli con la forza di chi si sente perdonato. Occorre tenere insieme le parole di Gesù e suoi occhi che guardano con l’intensità dell’amore. Ciò che conta è rimanere sotto il suo sguardo, sapendo che per l’Amore niente è impossibile.
b) Il nostro sguardo verso Gesù
Lasciandoci guardare da Cristo, diventa possibile compiere il secondo movimento dello sguardo: tenere gli occhi fissi su di lui, «autore e perfezionatore della nostra fede» (Eb 12,2). Origene afferma: «Quando, infatti, tu rivolgerai lo sguardo più profondo del cuore verso la contemplazione […] del Figlio unico di Dio, allora i tuoi occhi vedranno Dio. Felice assemblea, quella di cui la Scrittura attesta che gli occhi di tutti erano fissi su di lui!»[5].
C’è un simpatico racconto di san Gregorio Nazianzeno che spiega l’importanza del tenere fisso lo sguardo su Gesù. Così egli scriveva: «È come nella caccia alla volpe. La volpe corre, mentre i cani la inseguono a perdifiato. A un certo punto, però, alcuni cani, stremati dalla fatica, si fermano e tornano indietro. Altri cani, invece, continuano a correre, fino alla fine, fino a che la volpe non è viene stanata. Perché? Perché i cani che non hanno visto la volpe, prima o poi si stancano, e rinunciano, mentre quei pochi che hanno avuto la fortuna di vedere la volpe proseguono la loro corsa fino in fondo».
Anche Chiara d’Assisi scrivendo alla beata Agnese di Praga le impartiva un insegnamento analogo: «Memore del tuo proposito, come un’altra Rachele, tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza. I risultati raggiunti, conservali; ciò che fai, fallo bene; non arrestarti; ma anzi, con corso veloce e passo leggero, con piede sicuro, che neppure alla polvere permetta di ritardarne l’andare, cautamente avanza confidente, lieta e sollecita nella via della beatitudine»[6].
Il sacerdozio eterno, storico e glorioso di Cristo
La Messa crismale ci esorta a tenere fisso lo sguardo fisso su Cristo per contemplare il mistero del suo sacerdozio eterno, storico e glorioso. Per comprendere questi tre aspetti occorre rileggere alcuni versetti dellaLettera agli Ebrei. Possiamo così ricordare che la religione è l’atto stesso per cui l’uomo riconosce la sua totale appartenenza a Dio e il sacrificio è l’espressione visibile, il sacramento di questo atto interiore di adorazione. Pertanto dove non vi è sacrificio e azione sacerdotale non vi è religione. In continuità con l’insegnamento profetico, la Lettera agli Ebrei, accanto alla critica dei sacrifici (cfr. Is 1,11; 1Sam 15,22; Ger 6,20; Os 6,6; Am5,21-25; Mi 6,6-8; Sal 50,13-15; 51,18-19), indica anche l’alternativa di un culto che corrisponde alla volontà di Dio.
La riflessione si svolge nella terza parte della Lettera. In essa, l’autore descrive il sacerdozio e il sacrificio di Cristo (cfr. Eb 5,11–10,39). Presenta innanzitutto Gesù come sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek (cfr. Eb 7,1-28), spiega che egli è stato reso perfetto a motivo del suo sacrificio (cfr. Eb 8,1–9,28) e infine mostra Cristo come causa di salvezza eterna (cfr. Eb 10,1-18). Sulla scia del salmo 40, esclude i quattro tipi di offerte sacrificali non gradite a Dio: sacrificio (thysia), offerta (prosfora), olocausto (holokautôma) e (vittima) per il peccato (peri hamartias). E, ad essi, sostituisce l’offerta personale dell’orante che si dispone con tutto sé stesso a compiere la volontà di Dio. Questo orientamento anti-rituale va ben oltre la critica del culto rivolta dai profeti nei riguardi di chi non corrisponde con una sincera pratica della legge. Vuole, invece, afferma l’intrinseca inadeguatezza di questa forma di culto. Se di sacrifici si vuole parlare, esiste un solo sacrificio, quello di Cristo. Il suo, infatti, ha un valore solo di tipo metaforico perché non consiste in un gesto rituale, ma ha una differente virtù qualitativa in quanto è dono della propria vita per Dio e per i fratelli.
a) Il sacerdozio eterno di Cristo
Dopo aver rifiutato il sistema rituale antico, l’autore stabilisce un’opposizione tra i sacrifici delle vittime animali e l’adempimento della volontà di Dio. Con il sacrifico di sé stesso, Cristo abolisce il culto sacrificale, e ne stabilisce uno nuovo, basato sulla propria offerta unica e personale in obbedienza alla volontà di Dio. Solo con l’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta «una volta per sempre» sul calvario, può essere superato il vecchio sistema cultuale antico e può realizzare il perdono dei peccai e la santificazione di tutti gli uomini.
Riprendendo le parole del salmista, il Verbo si rivolge al Padre e proclama solennemente: «Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: “Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore”» (Sal 40 7-9 cfr. Eb 10, 5-7). Poi aggiunge: «Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre» (Sal 40,10).
La formula «Gesù Cristo» ricorre solo altre due volte nella Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 13, 8.21) e considera insieme l’umanità a cui allude il nome Gesù e la sua messianicità in quanto Cristo. Nel suo intento di stabilire una contrapposizione tra la volontà di Dio e le prescrizioni dei sacrifici, l’autore rilegge il testo del salmo in chiave cristologica, facendo emergere da esso il piano di Dio. Fin dal momento del suo ingresso nel mondo, Cristo si orienta verso il dono totale di sé nell’obbedienza alla volontà del Padre (cfr. Lc 22,42; Eb 5,7 8). Accettando la sua volontà, egli si abbandona nelle sue braccia paterne e accetta anche il dramma della passione. Con questa disposizione sacrificale, il Verbo inaugura il suo sacerdozio fin dall’eternità.
b) Il sacerdozio storico di Cristo
Il sacerdozio eterno di Cristo si concretizza nella storia. Per questo l’autore della Lettera agli Ebreiafferma: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 7-9). Al centro della storia della salvezza c’è la figura del Christus patiens, il Gesù sofferente, pienamente solidale con la nostra umanità.
Con un gioco di parole, l’autore mette a confronto due verbi: imparare e soffrire. Sono verbi che in greco suonano in modo molto simile: émathen (imparò) – épathen (soffrì). La sofferenza (páthos) è la fonte della conoscenza (máthos). L’autore ricupera così un’idea letteraria della antichità classica e la applica concretamente alla persona di Gesù. L’espressione «imparò l’obbedienza» non significa che prima non era obbediente. Da sempre il Figlio è obbediente la Padre. Anzi l’obbedienza è caratteristica propria della sua persona divina. Vuol dire, invece, che essa si è esplicata concretamente dopo la sua incarnazione. Un conto, infatti, è l’obbedienza teorica quando non costa, un altro è l’obbedienza pratica, quando bisogna fare qualche cosa che non piace, e lo si fa sul serio e bene! Allora si impara l’obbedienza. Cristo imparò l’obbedienza, proprio in una concreta esperienza di dolore, di sofferenza. Fu obbediente non in teoria, ma in pratica. Portò l’obbedienza fino alla fine. Fu obbediente fino alla morte.
Questa caratteristica costituisce la differenza essenziale rispetto alla nostra vita. Noi siamo nati perché altri lo hanno voluto. Nessuno di noi ha scelto di nascere. Solo il Figlio di Dio ha scelto liberamente di nascere, perché esisteva prima di nascere. Noi non è che scegliamo di morire, ma siamo costretti a morire inevitabilmente. Cristo ha scelto liberamente di morire perché poteva non morire. Ha scelto di nascere e di morire, potendone fare a meno. Qui sta la serietà della sua condivisione con la nostra esistenza umana. Non ha giocato ad assomigliarci. È stato in tutto come noi. M diversamente da noi, ha accettato liberamente di passare nella nostra condizione, potendone fare a meno.
Cristo imparò nella storia ciò che, in quanto Verbo, conosceva fin dall’inizio. Nella drammatica preghiera del Getsemani (cfr. Lc 22, 39-46), dalle sue labbra escono suppliche accompagnate da «forti grida e lacrime». È l’umanità che reagisce di fronte alla tragedia del dolore più atroce e alla sofferenza della morte. Il verbo “offrì” (prospherein) è un termine tecnico del linguaggio cultuale ed indica l’offerta dei doni umani a Dio, Esprime l’atto dell’offerta e del sacrificio della propria persona. In questo termine, si riassumono l’angoscia del monte degli ulivi, la sofferenza della passione, il grido di dolore lanciato dalla croce.
Non si tratta, però, di un altro atto rispetto alla sua missione sacrificale e sacerdotale. Il verbo “offrì” (prospherein) indica la realizzazione del suo sacerdozio. Egli è mediatore di salvezza attraverso la sua sofferenza. Gesù non ha offerto a Dio qualcosa, ma ha offerto sé stesso. La sua compassione trasforma in preghiera e in grido al Padre l‘anelito del mondo alla salvezza. In lui, si fa strada «il pieno abbandono» al disegno che il Padre sta tracciando nella storia della salvezza e che vede lui come protagonista. Il termine greco usato per indicare questo “abbandono” fiducioso è eulábeia che significa “buona accettazione”, cioè adesione totale.
Come uomo, Cristo è «reso perfetto» attraverso l’obbedienza nella sofferenza con una profonda accettazione del volere divino[7]. La perfezione del Cristo è la sua consacrazione sacerdotale. Attraverso il sacrificio della croce, egli è diventato sacerdote, quindi causa non di una salvezza transitoria, ma eterna per tutti coloro che gli obbediscono. È con la sua “perfetta” umanità che il Figlio di Dio diventa «causa di salvezza eterna». Il verbo del “perfezionamento” dell’umanità di Cristo (in greco teleiotheis) è il termine tecnico anticotestamentario che indicava la consacrazione dei sacerdoti. La consacrazione di Cristo però non avviene nel rito, ma nella vita, in una vicenda esistenziale e storica, attraverso la solidarietà piena con l’umanità nel soffrire e nel morire.
A chi si scandalizzava e si domandava come il Padre possa trovare compiacimento nella morte in croce del figlio Gesù, san Bernardo risponde giustamente: «Non fu la morte che gli piacque, ma la volontà di colui che spontaneamente moriva: “Non mors placuit sed voluntas sponte morientis”»[8]. Non è dunque la morte per sé stessa che ci ha salvato, quanto l’obbedienza di Cristo fino alla morte[9].
San Massimo il Confessore spiega che l’”io” non è l’umanità che parla alla divinità (antiocheni). Non è neppure Dio che, in quanto incarnato, parla a sé stesso in quanto eterno (alessandrini). L’“io” è il Verbo incarnato che parla in nome della volontà umana libera che ha assunto. Il “tu” invece è la volontà trinitaria che il Verbo ha in comune con il Padre. In Gesù, il Verbo obbedisce umanamente al Padre! E tuttavia non si annulla il concetto di obbedienza, né sostiene che Dio, in questo caso, obbedisce a sé stesso. Tra il soggetto e il termine dell’obbedienza c’è tutto lo spessore di una reale umanità e di una volontà umana libera[10]. Dio ha obbedito umanamente! Si capisce allora la potenza universale della salvezza racchiusa nel fiat di Gesù. È l’atto umano del Figlio; un atto teandrico, cioè divino-umano per mezzo del quale siamo tutti salvati.
c) Il sacerdozio glorioso di Cristo
Il sacerdozio eterno, posseduto da Cristo fin da prima della fondazione del mondo e reso perfetto dall’obbedienza vissuta nella passione, viene esercitato, nell’Oggi di Dio”, da Cristo glorificato. Con la sua ascensione al cielo, egli inaugura la contemporaneità del suo sacerdozio glorioso. L’autore della Lettera agli Ebrei, infatti, scrive: Cristo «possiede un sacerdozio che non tramonta […]. Egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore […]. Noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e della vera tenda, che il Signore, e non un uomo, ha costruito. […] Se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la Legge. Questi offrono un culto che è immagine e ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu dichiarato da Dio a Mosé, quando stava per costruire la tenda: “Guarda – disse – di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte”. Ora invece egli ha avuto un ministero tanto più eccellente quanto migliore è l’alleanza di cui è mediatore, perché è fondata su migliori promesse» (Eb 7,24-25- 8,1-2; 4-6).
Nella figura di Melchisedech è annunciato il personaggio celeste, il grande sacerdote della religione cosmica, figura di colui che sarà il gran sacerdote eterno e che offrirà il perfetto sacrificio. (cfr. Sal 109, 4). Il suo nome «significa prima di tutto “re di giustizia”, e per di più è re di Salem, cioè “re di pace”, senza padre, madre, senza antenati, e del quale si ignora il principio e la fine, questo Melchisedech, vera figura del Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre» (Eb 7,1-3).
In quanto figura di colui che non avrà padre perché viene dal cielo e non si iscriverà in una successione sacerdotale[11], egli raccoglie in sé tutto il valore religioso dei sacrifici offerti dalle origini del mondo sino ad Abramo e ne attesta il gradimento da parte di Dio. Non offre più il sacrificio nel tempio di Gerusalemme, ma considera il mondo intero come il tempio da cui si innalza l’incenso della preghiera[12]. I titoli stessi di Melchisedech caricano la sua figura di un misterioso simbolismo: la giustizia e la pace si riuniscono in lui e si abbracciano (cfr. Sal 84,11).
A immagine di Melchisedech, anche il sacerdozio di Cristo è definitivo. Egli è il gran sacerdote eterno, dopo il quale non ve n’è un altro. I sacrifici che venivano offerti fino ad allora esprimevano lo sforzo dell’uomo di riconoscere la sovranità divina. Ma il loro sforzo non poteva avere successo a causa dell’eccessiva sproporzione tra la fragilità dell’uomo e la santità di Dio. Nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio, unito alla natura dell’uomo da un legame indistruttibile, si è fatto obbediente fino alla morte della croce, manifestando con la sua obbedienza l’infinita amabilità della volontà divina e rendendo così a Dio una gloria perfetta. Ora la gloria di Dio è il fine stesso della creazione.
La menzione del sacrificio di Melchisedech nella preghiera eucaristica in quanto «sanctum sacrificium, immaculatam hostiam» attesta che sono ripresi e assunti nel sacrificio del sommo ed eterno sacerdote non solo i sacrifici del tempio d’Israele, ma anche quelli del mondo pagano. Egli non li distrugge, ma li compie. Attraverso di lui, tutti i sacrifici di tutte le nazioni e ogni sforzo dell’uomo per glorificare Dio sono rivolti al Padre e giungono sino a lui. Nell’azione sacerdotale di Gesù Cristo, Dio viene perfettamente glorificato in modo che nessuna gloria nuova può essere aggiunta. Non si potrà ormai offrire al Padre se non l’unico sacrificio di Gesù Cristo. Per questo ogni eucaristia è il sacramento per eccellenza.
Cristo altare, vittima e sacerdote
Cristo è così costituito sacerdote, «non secondo la legge di prescrizioni carnali, ma per una forza di vita indistruttibile» (Eb 7,16). In lui si opera un’unità inscindibile tra sacrificio, sacerdote e tempio. Il suo corpo immolato è nello stesso tempo il sacrificio offerto, il ministro che lo offre e il luogo dove è offerto. I Padri della Chiesa, «meditando la Parola di Dio, non esitarono ad affermare che Cristo è vittima, sacerdote ed altare del suo stesso sacrificio»[13]. L’altare rappresenta questa unicità e novità del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, avvenuto “una volta per tutte” sul calvario e celebrato “ogni volta” nell’Eucaristia. Per questo è giusto parlare della piena identificazione dell’altare con Cristo: l’altare è Cristo![14].
Cristo è il vero e unico sacerdote, perché unica e irripetibile è la mediazione tra Dio e gli uomini che solo lui può offrire. Egli è insieme colui che offre il sacrificio e colui che si offre in sacrificio. Il suo sacerdozio, come il suo sacrificio, non è affatto rituale, ma è talmente vitale da essere un unicum così singolare che non ha bisogno di alcun altro completamento.
In Cristo, diventiamo anche noi un popolo sacerdotale (cfr. Is 61,6). Egli «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,6). Nell’unità del sacerdozio comune di tutti battezzati e del sacerdozio ministeriale di tutti i presbiteri, la Chiesa cresce e si edifica nel tempo. Felici noi, cari battezzati, se i nostri sguardi saranno tutti concentrati su Gesù, sommo ed eterno sacerdote e se, ammirando il suo sacerdozio, impareremo a contemplare, stimare ed onorare il sacerdozio di cui siamo tutti rivestiti in forza del nostro battesimo! Felici noi, presbiteri, se mediteremo, apprezzeremo e ameremo il nostro sacerdozio ministeriale e se «resi partecipi della sua consacrazione sarem0o testimoni nel mondo della sua salvezza»[15]. Saremo felici soprattutto se eserciteremo fedelmente il nostro servizio sacerdotale come un dono e un compito per il quale vale la pena di considerare ogni altra cosa «come spazzatura (peripsema)» (Fil 3,8). Tutta la nostra felicità consisterà nel guadagnare la perla preziosa (cfr. Mt 13, 45-46) e nel farla risplendere nel mondo come fonte di gioia e di pace per tutti.
[1] San Gregorio Magno scrive: «Chi annuncia la parola di Dio, prima si dedichi al proprio modo di vivere, perché poi, attingendo dalla propria vita, impari cosa e come dirlo. […] Nessuno presuma di dire fuori ciò che prima non ha ascoltato dentro», Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, X, 13-14.
[2] Basilio, In Ps. 29,1.
[3] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, I, VIII, 8.
[4] Il verbo ricorre due volte: in questo passo e in Atti 10,4.
[5] Origene, Hom. Lc. 32,6.
[6] Chiara d’Assisi, Seconda lettera alla beata Agnese di Praga, Fonti clariane, Editrici Francescane, Padova 2015, n. 16, pp. 54-55.
[7] Il concetto di perfezione; lo ritroveremo anche nei capitoli 8 e 9, vertice della teologia della Lettera agli Ebrei.
[8] S. Bernardo di Chiaravalle, De errore Abelardi, 8, 21.
[9] «Per virtù di quell’obbedienza che prestò sino alla morte, pendente dal legno, dissolse quell’antica disobbedienza avvenuta nel legno», S. Ireneo, Dimostrazione della predicazione apostolica, 34.
[10] Cfr. Massimo il Confessore, In Matth., 26, 39.
[11] G.T. Kennedy, St. Paul’s Conception of the Priesthood of Melchisedech, Washington 1951, pp. 71-107.
[12] Cfr. J. Daniélou, Le signe du temple: ou, De la présence de Dieu, Gallimard, Paris 1942, pp. 9-14.
[13] Ordo dedicationis Ecclesiae et altaris, IV/1.3.
[14] Cfr. ivi, IV/4.
[15] Colletta della Messa crismale.
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