Omelia nella Messa del Giorno di Natale
Chiesa Cattedrale, Ugento 25 dicembre 2024.
Cari fratelli e sorelle,
a Natale rinasce la speranza. La venuta al mondo del Verbo incarnato è la gioiosa manifestazione e il luminoso splendore della speranza, il suo grembo fecondo. Nel cuore della notte, nella tranquillità di una stalla, il Figlio di Dio nasce per portare liberazione e redenzione nel mondo. La mangiatoia è come uno scrigno che custodisce la speranza fatta persona: Cristo, nostra speranza. È lui il cammino da percorrere, la meta del nostro pellegrinaggio, la vita da godere.
Le doglie e il travaglio immagini della speranza
Il Nuovo Testamento propone tre immagini della speranza. Le prime due sono «l’àncora sicura e salda per la nostra vita» (Eb 6,19) e “l’elmo” da indossare assieme alla «corazza della fede e della carità» (1Ts 5,8). Se il simbolo dell’àncora indica che non si può vivere senza «afferrarsi saldamente alla speranza», quello dell’elmo invita a camminare con sicurezza, «valutando con sapienza i beni della terra nella continua ricerca dei beni del cielo».
Gesù utilizza la stessa metafora per esprime il contenuto della speranza cristiana: «La donna quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,21-22).
San Paolo applica l’immagine del “parto” quando parla «dell’ardente aspettativa della creazione protesa alla rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19). La donna che partorisce e dà alla luce il suo bambino è l’immagine più concreta della speranza. Rende tangibili quattro virtù: l’attesa, il coraggio la perseveranza, la gioia. Il corpo di una donna gravida è tutto predisposto all’accoglienza della vita nuova, che si sviluppa in lei. Una mamma sa di custodire nel grembo il dono della vita, attende con gratitudine mescolata ad ansietà la nascita del figlio, consapevole che la gestazione non è una passeggiata, ma prevedere le doglie del parto. Così è la speranza: attesa coraggiosa di una nuova nascita, perseveranza nel portarla al compimento.
L’immagine delle “doglie del parto” esprime l’itinerario di fede di Maria nell’accogliere il paradosso del Messia sofferente e l’Agnello immolato. In tal modo, ella diventa il modello della speranza. Gravida della venuta del Regno, canta con l’esultanza del Magnificat la potenza dell’Eterno. È lei, in modo eminente, la donna dell’Apocalisse che partorisce nel dolore e diventa anche la madre di quelli che vivono i comandamenti divini e rendono testimonianza a Gesù (cfr. Ap 12, 17). Fin dall’inizio, condivise l’attesa del compimento del mistero dell’incarnazione con la cugina Elisabetta. Visse la gioia della nascita di Gesù, insieme a Giuseppe nel villaggio di Betlemme. Generò nel tempo il Figlio eterno del Padre. Affrontò le sofferenze della sua morte di croce e il silenzio della sua sepoltura fino al parto inaudito e straordinario della risurrezione. Fu così non solo madre di Cristo, ma anche del suo corpo che è la Chiesa e, come madre in preghiera, attese insieme agli apostoli il giorno di nascita della nuova comunità dei credenti.
Sperare significa generare
Tutti là siamo nati, afferma il salmista in riferimento a Gerusalemme (cfr. Sal 86, 5-6)). Viene così adombrata la Chiesa, la nuova Gerusalemme che è nostra madre; il fonte battesimale che in essa ci ha accolti ci ricorda che tutti là siamo nati! Siamo nati tutti da quel parto e da quella madre. Siamo stati rigenerati «mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo» (1Pt 1, 3).
Generare un nuovo essere umano, significa affermare ‘spero in lui per noi’. «“Io spero in te per noi”, tale è la formula autentica della speranza»[1]. La nascita è sempre un’esperienza radicale del noi, già a livello intrauterino, oltre che un evento agapico per eccellenza. L’Io non è mai insulare, ma è comunitario e inter soggettivo fin dal principio, dal suo esordio prenatale e neonatale. «L’essere è relazione o più precisamente è la compresenza creativa del l’Io e del Tu, è il “noi” operante nella reciproca dedizione del l’amante e del l’amato»[2].
L’eclissi della speranza, il fatto cioè che gli uomini siano sempre meno capaci di sperare, si riverbera immediatamente sulla nascita o meglio ancora sulla disponibilità nei confronti della nascita. In tempi non sospetti, e con spirito profetico, Gabriel Marcel ha affermato che «è presumibile che qui tocchiamo le radici metafisiche d’una denatalità che appare quasi coestensiva a un certo tipo di civiltà»[3] non più abitata dalla speranza. Tutte le altre spiegazioni di tipo sociale o economico non riescono in realtà a dar conto davvero di questa situazione inedita, che ormai caratterizza l’Occidente avanzato.
La fede è la «speranza migliore» (Eb 7,19)
«Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?» si chiedeva Cesare Pavese[4]. Egli stesso però affermava: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità»[5].
Ai profondi aneliti dell’uomo risponde la «speranza migliore» (Eb 7,19). La vera speranza, quella che salva, è un dono della fede, cioè è «sostanza delle realtà che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb 11, 1). La salvezza non è semplice emancipazione, ma è dono, una grazia da chiedere, oltre ogni calcolo e misura. «Per sperare, bambina mia – afferma Charle Peguy – bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia»[6]. La grande grazia che genera la speranza è la certezza della fede, quella fede che è «sustanza di cose sperate» come canta Dante, riportando le parole di S. Paolo[7].
La connessione tra fede e speranza è spiegata da S. Tommaso con la distinzione tra la speranza-passione intesa come movimento della sensibilità verso un bene futuro di carattere arduo, ma proporzionato comunque alle capacità naturali della persona[8], e la speranza teologale che ha a che fare con Dio stesso, nel senso che da lui proviene il dinamismo impresso alla volontà umana che tende a lui come meta ultima del suo protendersi. L’articolazione tra la speranza umana e quella teologale è data proprio da questa tendenza verso ciò che è arduum, da intendersi non semplicemente come qualcosa di difficile, ma come ciò che è alto, eminente, elevato, e che quindi solo nel fine ultimo può trovare il suo appagamento.
Tra la dimensione meramente naturale e quella più specificamente teologale c’è quindi un salto, nel senso di un compimento gratuito ed eccedente che realizza in modo inatteso quanto già insito nel cuore umano. Dante stesso prosegue il discorso sulla fede nel canto XXV del Paradiso con l’affermazione che i profondi misteri che gli sono rivelati per grazia divina sono nascosti sulla terra e sono creduti solo per fede; su questa fede si fonda la speranza, che è «uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto»[9].
D’altra parte, «la fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una ‘prova’ delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future»[10].
Se c’è un dono da chiedere a Dio per tutti, questo è la speranza teologale: una speranza più forte di ogni calcolo, umile e fiduciosa nella promessa del Dio venuto a visitarci per iniziare fra noi il suo domani per noi. La speranza migliore non è qualcosa che possiamo creare e gestire con le nostre sole forze, ma è Qualcuno che viene incontro, proprio Colui per cui vale la pena di vivere, amare e soffrire, radicati e fondati sulle parole della sua promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
La speranza è come un seme che germoglia
La speranza è come il granellino di senape, un piccolo seme che germoglia e diventa un grande albero (cfr. Mt 13,31-32; Mc 4, 30-32; Lc 13, 18-119). Il poeta Mario Luzi ripropone il detto evangelico con la bella immagine del «bulbo della speranza, / che ora è occultato sotto il suolo / ingombro di macerie, / non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera»[11].
Proprio in virtù della sua filosofia della speranza, G. Marcel si oppone radicalmente al famoso detto tragico del Sileno, che ha caratterizzato il mondo greco per cui «è meglio non nascere» e, quando si è nati, è meglio aspirare a «morire al più presto». Questo orientamento “silenico” non è solo del mondo greco, ma anche del pensiero della gnosi, dei catari e di altri movimenti spirituali, che tendono a condannare la terra e il corpo e, di conseguenza, anche la nascita. Quando si realizza l’eclissi della speranza vi è conseguentemente un ‘riflusso della vita’.
Ogni madre, invece, accogliendo suo figlio, oggetto del suo amore fedele, è come se ripetesse la straordinaria frase di Marcel: «Tu non morirai!» La made ama di quel l’amore, che consiste nel dire all’essere che si ama: «Tu non puoi morire e non morirai!». In una pièce teatrale, Le mort de demain, Marcel fa dire a uno dei suoi personaggi ovvero Antoine: «Aimer un être, c’est lui dire: “Toi, tu ne mourras pas” (Amare un essere significa dirgli: “Tu non morirai”»[12]. La speranza migliore genera una nuova visione che impedisce di ripetere la sentenza silenica del “morire al più presto”, e rafforza il desiderio di vivere nella pienezza dell’amore, in quel dinamismo vitale che in grado di sconfiggere il desiderio di morte.
I luoghi per imparare a sperare
I luoghi dove impariamo a vivere la speranza sono la preghiera, la disponibilità a pagare un prezzo d’amore a servizio di chi soffre, l’obbedienza al giudizio di Dio[13].
La preghiera è lo spazio dell’invocazione, in cui – lasciandosi amare da Dio – il cuore si apre alle sorprese del suo avvento, si fa invocazione, desiderio, attesa. Chi più prega, più spera! Il servizio verso chi soffre è la forma concreta dell’esodo da sé, che libera il cuore e lo educa ad amare l’altro, lasciandosi abitare e condurre dal Signore. Il giudizio di Dio è il fuoco di verità che ci apre al suo futuro e mostra il vuoto di ogni scelta o calcolo o progetto che sia unicamente secondo le misure dei nostri egoismi e delle nostre paure. Sotto il sole di Dio s’impara ad accogliere il domani lasciando il nostro presente in un esodo sempre nuovo della speranza.
La speranza si impara ogni giorno valorizzando «le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso […], Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all’economia del bene, dell’amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi»[14].
Dispiegare le ali della speranza che non delude
La radice semitica della parola speranza, espressa nel verbo qawah (cfr. Sal 39, 8; 130, 5) potrebbe riferirsi materialmente alla “corda tesa” e, in senso figurato, alla volontà che si protende verso il suo oggetto e insieme sa perseverare e pazientare tenacemente nell’attesa. La stessa terminologia biblica intreccia l’atto umano dello sperare e l’oggetto sperato, il bene atteso[15].
Nelle differenti età della vita, bisogna imparare a sperare cioè a decidere[16], a prendere posizione nei confronti di sé stessi. Ogni decisione ha il suo alveo vitale nella speranza che protende l’uomo verso la meta, ma non lo mette al riparo dal peso delle sue scelte. Esse e domandano continuamente la pazienza di essere riprese nelle quotidiane sfide dell’esistenza. «Oggetto della speranza – afferma san Tommaso d’Aquino – è un bene futuro, arduo, ma possibile a conseguirsi»[17].
Accogliere, pertanto, la sfida della speranza vuol dire voler essere veramente umani. Rinunciarvi è rinunciare alla vita. Ne è consapevole Cesare Pavese in quei versi struggenti, scritti poco prima della sua tragica fine, in cui il bisogno di speranza cedette alla disperazione: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, /sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo. I tuoi occhi / saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio. / Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio. O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla»[18].
All’affermazione di Aristotele che la speranza è «sogno di uomo sveglio»”[19], fa eco l‘affermazione di san Bonaventura che qualifica la speranza cristiana come il volo dell’uccello che dispiega le sue ali con tutte le forze nel modo più ampio possibile; un volo che si realizza attraverso l’incontro tra le due ali: la fede e la ragione. Anche la poetessa americana Emily Dickinson, nella poesia, la “Speranza” paragona la speranza «una creatura alata / che si annida nell’anima / e canta melodie senza parole / senza smettere mai»[20]. Animati dalla speranza, sarà possibile per tutti superare i momenti più difficili, far svanire ogni risentimento e tristezza ed affrontare la realtà con la dovuta serenità.
Questa è la speranza di cui il mondo oggi ha più che mai bisogno per vivere e per costruire il domani, avanzando nella notte, sapendo che c’è un’aurora che ci attende e che già lambisce col suo tocco il cuore di chi spera. A noi credenti spetta il compito di ricominciare ogni giorno, chiedendo a Dio, con costante e intensa preghiera, di portare a termine quanto di buono ci proponiamo di compiere.
[1] G. Marcel, «Il mistero familiare», in Id., Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, Borla, Roma 1980, p. 108. Si tratta della conferenza tenuta al l’École des hautes études fa miliales nel 1942 a Lione e a Tolosa.
[2] Ib., p. 93.
[3] Id., «Abbozzo di una fenomenologia e di una metafisica della speranza», in Id., Homo viator, p. 68.
[4] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952, p. 276.
[5] Ivi, p. 190.
[6] C. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in I Misteri, Jaca Book, Milano 1997, p. 167.
[7] Dante, Paradiso, XXIV, 64.
[8] Cfr. Tommaso d’Aquino, S.th., I-II, q. 40, a. 1.
[9] Dante, Paradiso, XXV, 67-69
[10] Benedetto XVI, Spe salvi, 7.
[11] M. Luzi, Con la leggerezza della speranza, il titolo della poesia che Luzi pubblicò nella piccola raccolta “Toscanità” edita da Zanetto nel 1993
[12] Id., Tu non morirai, a cura di Franco Riva e Maria Pastrello, traduzione di Maria Pastrello, Roma, Valter Casini Editore, 2006 p. 151.
[13] Cfr. Benedetto XVI, Spe salvi, 32-40.
[14] Benedetto XVI, Spe salvi, 40.
[15] Cfr. P. Rota Scalabrini, «La speranza non delude: elementi di una teologia paolina della speranza», in AaVv., Crisi della speranza, Milano, Glossa, 2000 (Quaderni di Studi e Memorie, 14), pp. 108-112.
[16] Suggestive riflessioni sul tema delle età della vita in R. Guardini, Le età della vita. Loro significato etico e pedagogico, Milano, Vita e Pensiero, 1986
[17] “Obiectum spei est bonum futurum arduum possibile haberi”, Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II IIae q. 17 a. 1 c.
[18] C. Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (22 marzo 1950), in Id., Le poesie, Einaudi, Torino 1998, p. 136.
[19] Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, V, 18.
[20] «Hope” is the thing with feathers / That perches in the soul /And sings the tune without the words / And never stops – at all» E. Dickinson, La speranza è una creatura alata, in Tutte le poesie, I Meridiani, Mondadori, 1997. L’immagine del volo è richiamata anche da don Tonino Bello, nella preghiera «Dammi, Signore, un’ala di riserva», in Scritti 3, pp. 315-316.
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