Omelia nella solennità di Pasqua
Chiesa Cattedrale di Ugento, domenica 20 aprile 2025.
Cari fratelli e sorelle,
la Chiesa canta nuovamente l’alleluia. Per tutto il tempo di quaresima la Chiesa aveva smesso di intonare questo grido di giubilo. A partire dalla veglia Pasquale, torna a ripetersi questo canto. È l’esplosione di gioia per l’avveramento di un fatto imprevisto e del tutto inatteso che cambia radicalmente il senso della vita. Di fronte al Servo di Javhé sofferente, il profeta Isaia esclama: «Si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito» (Is 52,15). Molto più stupore suscita il fatto ancora più straordinario della risurrezione di Cristo.
L’alleluia è il canto dei redenti
L’annuncio pasquale è inaudito e sconvolgente. Come quando una donna, che non può aver bambini, scopre improvvisamente di essere incita e si rallegra perché anche lei potrà diventare madre e dare alla luce una nuova creatura. Come quando una persona che avuta la notizia di essere affetta da un male incurabile, scopre che la cura è possibile e che le terapie specifiche sono capaci di debellare definitivamente il male. Come quando dei genitori, sembrano avere perso tutte le speranze perché non riescono a far smettere al figlio di drogarsi, si ritrovano davanti alla decisione del figlio di entrare in una comunità per intraprendere un cammino di liberazione e, dopo alcuni anni, lo vedono completamente trasformato e pronto a vivere senza più quelle catene che lo tenevano avvinto.
L’alleluia è il grido di esultanza perché con la risurrezione di Cristo incomincia un mondo nuovo. Finalmente «quanto è distrutto si ricostruisce, quanto è invecchiato si rinnova, e tutto ritorna alla sua integrità, per mezzo di Cristo, che è principio di ogni cosa»[1]. Non sorprende allora che, dopo il superamento della prova, i redenti innalzano al Signore il loro canto di gioia: «“Alleluia! Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio” […]. Allora i ventiquattro vegliardi e i quattro esseri viventi si prostrarono e adorarono Dio, seduto sul trono, dicendo: “Amen, alleluia”. Partì dal trono una voce che diceva: “Lodate il nostro Dio, voi tutti, suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi!”. Udii poi come una voce di una immensa folla simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano: “Alleluia. Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta”» (Ap 19, 1-7).
Il giardiniere e il viandante
Il punto di forza del cammino cristiano consiste nell’incontro personale e comunitario con Cristo risorto. Solo allora si torna nuovamente a cantare l’alleluia. Sono molti i modi con i quali il Risorto si presenta. Paradigmatici sono i racconti delle apparizioni di Gesù a Maria Maddalena e ai discepoli di Emmaus. In questi due eventi, Cristo risorto si mostra come un giardiniere e un viandante.
A Maria Maddalena appare in veste di giardiniere, figura di quel Dio che, al momento della creazione, plasma un giardino e lo affida alle cure degli uomini. Il giorno di Pasqua siamo in un giardino, in un contesto primaverile. La primavera segna il rinascere della natura dopo il letargo dell’inverno. L’alba, invece, è il rinascere della luce che sconfigge la tenebra. Il giardino è il luogo dove prende corpo il ritorno alla vita e alla luce del giorno.
Il giardino è un elemento che attraversa tutta la Scrittura. Dio pianta un giardino in Eden dove pone Adamo, plasmato con la terra. Quel giardino, luogo di felicità, diventa teatro di un allontanamento dell’uomo da Dio e a causa del peccato le sue porte vengono chiuse. A guardia del giardino viene posto un angelo con la spada di fuoco per impedire all’uomo e alla donna di ritornarvi. Tuttavia, alla fine del libro dell’Apocalisse, come in un arco teso che tiene i due poli dell’intera Scrittura, l’inizio e il compimento della rivelazione di Dio, c’è un altro giardino che appare come una città.
Nel Cantico dei Cantici il giardino indica il tempo dell’innamoramento. Il cap. 20 del vangelo di Giovanni presenta il giardino del sepolcro vuoto come il rinnovarsi della promessa d’amore del Cantico. Davanti all’evidenza che Gesù è morto, Maria di Màgdala lo cerca nel pianto. Il suo grande amore la rende ostinata anche di fronte all’impossibilità di qualsiasi risposta. Questo ostinato «rimanere presso» la tomba offre a Gesù risorto l’occasione per potersi rivelare come il giardiniere.
Anche l’immagine del viandante, nell’episodio dei due discepoli di Emmaus, è fortemente evocativa. Il Risorto ci attende lungo la via perché possiamo riconoscerlo. T. S. Eliot descrive l’incontro mancato con un personaggio misterioso Con queste parole: «Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? / Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme / Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca / C’è sempre un altro che ti cammina accanto»[2].
Nel pomeriggio di Pasqua, i due discepoli che vanno da Gerusalemme ad Emmaus alla fine riconoscono il terzo che cammina accanto a loro. Gesù ha la pazienza di avvicinarsi, adeguando il proprio passo a quello dei suoi interlocutori. Si tratta di un gesto di grande accondiscendenza, quasi per farsi dire dall’altro il mistero della sua persona. «Quale Gesù chiede Gesù e si fa raccontare la sua stessissima storia / dal punto di vista dell’agnosticismo»[3]. La Pasqua non annulla le preoccupazioni, le inquietudini, i drammi. Ci riporta l’invito esplicito di Gesù a fidarci della sua parola, senza essere «stolti e tardi di cuore a credere» (Lc 24, 25).
Il cammino pasquale del cristiano
La vita cristiana segue lo stesso percorso. Si svolge tra due fasi. La prima si realizza nel tempo, come pellegrini che camminano tra tentazioni e tribolazioni. La seconda, nell’eternità, quando conseguiremo ciò che in questa terra possiamo solo desiderare, senza ancora possederlo pienamente e definitivamente. Questi due tempi sono caratterizzati da due sentimenti: la lode e la supplica. La lode fa sprizzare di gioia, la supplica racchiude il gemito. Ci rallegriamo di poter conseguire ciò che speriamo e gemiamo attendendo che nostro desiderio venga esaudito.
«Per questo motivo – afferma sant’Agostino – è stata istituita per noi anche la celebrazione dei due tempi, cioè quello prima di Pasqua e quello dopo Pasqua. Il tempo che precede la Pasqua raffigura la tribolazione nella quale ci troviamo; invece quello che segue la Pasqua, rappresenta la beatitudine che godremo. Ciò che celebriamo prima di Pasqua, è anche quello che operiamo. Ciò che celebriamo dopo Pasqua, indica quello che ancora non possediamo. Per questo trascorriamo il primo tempo in digiuni e preghiere. L’altro, invece, dopo la fine dei digiuni lo celebriamo nella lode. Ecco perché cantiamo: alleluia. Infatti in Cristo, nostro capo, è raffigurato e manifestato l’uno e l’altro tempo. La passione del Signore ci presenta la vita attuale con il suo aspetto di fatica, di tribolazione e con la prospettiva certa della morte. Invece la risurrezione e la glorificazione del Signore sono annunzio della vita che ci verrà donata»[4].
La speranza è l’anelito alla vita piena
La Pasqua genera e rinnova la speranza, «la prima e fondamentale virtù vitale che anima e pervade tutti gli stadi dell’esistenza umana»[5]. Questa virtù ha una natura visionaria, in grado di prevedere ciò che ancora non esiste. Qualcosa sembra impossibile fino a quando qualcuno non riesce a concepirla e a impegnarsi affinché diventi realtà. La speranza supera costantemente i limiti dell’evidente e si apre a ciò che, da quella prospettiva, potrebbe sembrare irraggiungibile.
È l’attesa di compimento di qualcosa che già esiste nella nostra vita: il «desiderio innato di felicità»[6]; impulso originario e promessa di realizzazione. Il desiderio, scintilla primordiale, è la promessa che guida ogni essere umano verso la propria realizzazione. È l’esperienza di Leopardi quando scriveva: «Il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia [uno direbbe che questa noia sia la cosa più brutta e invece…] pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana»[7]. La nobiltà dell’uomo, rispetto a tutte le altre creature, sta proprio in questa contraddizione: Tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio». In questo emerge la sublimità del sentire, il «misterio eterno / dell’esser nostro»[8].
«Per sperare […] bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia»[9]. L’innato desiderio di felicità è di origine divina; Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare. «Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità»[10] perché «Dio solo sazia»[11].
La speranza apre la nostra vita, fragile e limitata, a una prospettiva più ampia. Allarga le strettoie del tempo e squarcia l’orizzonte alla dimensione dell’eternità. La Lettera agli Ebrei porta come simbolo l’àncora: «Nella speranza infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa penetra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato per noi come precursore» (Eb 6,19-20). La speranza è un’ancora saldamene legata al cielo. Non elimina le difficoltà o le tempeste della vita, ma stabilisce un punto saldo che non crolla. Anche se siamo sballottati dalle difficoltà e dagli eventi della vita, non veniamo trascinati via. Ci guida verso il nostro destino, verso la pienezza. Indica una meta che da soli non saremmo in grado di raggiungere. Non potremmo compiere nemmeno un passo se non avessimo la certezza della meta.
La speranza, inoltre, è come una finestra spalancata sull’eternità. «Là noi riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che alla fine sarà senza fine. E quale altro fine abbiamo, se non di giungere al regno che non avrà fine?»[12].
Riconoscere la nostra sete di infinito ci porta a elevare uno sguardo al cielo. Gregorio Nazianzeno scriverà: «Nulla mi sembra più grande di questo: far tacere i propri sensi, uscire dalla carne del mondo, raccogliersi in se stesso, non occuparsi più delle cose umane, se non di quelle strettamente necessarie; parlare con se stesso e con Dio, condurre una vita che trascende le cose visibili; portare nell’anima immagini divine sempre pure, senza mescolanza di forme terrene ed erronee; essere veramente uno specchio immacolato di Dio e delle cose divine, e divenirlo sempre più, prendendo luce da luce […]; godere, nella speranza presente, il bene futuro, e conversare con gli angeli; avere già lasciato la terra, pur stando in terra, trasportati in alto con lo spirito»[13]. Per questo la liturgia canta: «L’alleluia pasquale risuoni nella Chiesa pellegrina mondo; e si unisca alla lode perenne dell’assemblea dei santi»[14].
[1] Messale romano, colletta settima della Vegli Pasquale.
[2] T. S. Elio, La terra desolata, V. Così disse il tuono.
[3] J. M. Ibáñez Langlois, Il libro della passione, ix, 11, trad. it. di Cesare Cavalleri, Ares, Milano 2002
[4] Agostino, Commenti sui salmi, Sal. 148,1-2.
[5] E. H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1966, p. 266.
[6] Catechismo della Chesa cattolica, 1718.
[7] G. Leopardi, «Pensiero LXVIII», in Id., Poesie e prose, vol. II, Mondadori, Milano 1980, p. 321.
[8] G. Leopardi, «Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima», vv. 22-23, in Id., Cara beltà…, BUR, Milano 2010, p. 96.
[9] C. Péguy, I misteri, Jaca Book, Milano 1997, p. 167.
[10] Agostino, Confessiones, 10, 20, 29.
[11] Tommaso d’Aquino, In Symbolum Apostolorum scilicet «Credo in Deum » expositio, c. 15: Opera omnia, v. 27 (Parigi 1875) p. 228.
[12] Agostino, De civitate Dei, 22, 30.
[13] Gregorio Nazianzeno, Discorso 2,7.
[14] Inno della liturgia delle Lodi.
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