Omelia nella Messa per l’apertura del Giubileo del 2025
chiesa Cattedrale, Ugento 29 dicembre 2024.

Cari sacerdoti, diaconi, consacrati e consacrate e fedeli laici,

            il Giubileo ordinario del 2025 è uno di quegli eventi ecclesiali che tocca la sensibilità del credente e del non credente; del credente perché lo invita ad assolvere al suo compito di coniugare ed esprimere con gioia e letizia il “semper” e il “novum” del messaggio evangelico; del non credente perché, superando ogni forma di indifferenza e di pregiudizi, si interroghi sull’orientamento della sua vita in riferimento alla verità che è Cristo. 

Dopo la caduta delle ideologie e l’atmosfera di disincanto che circonda i grandi progetti utopici che a più riprese si sono presentati sulla scena della modernità, il Giubileo chiede una rinnovata riflessione sulla speranza. Per certi versi, essa sembra essere fuori moda. Tuttavia, nonostante la sua evanescenza nell’orizzonte della pianificazione tecnologico-scientifica della vita, essa continua ad avere una forza evocante e insospettati ritorni[1]. La sua irriducibilità nell’esistenza dell’uomo e il suo radicarsi nella profondità del proprio essere, impone al credente e al non credente la necessità di ritornare a riflettere sulle cose ultime (éschata) e sulle realtà nuove (novissima).

Abbiamo vissuto due segni caratterizzanti l’evento giubilare: il pellegrinaggio dal santuario dei santi Medici alla Cattedrale e l’apertura della porta santa.  Entrambi si compongono di due direttrici, esterna e interna, e valutano il tempo come opportunità per ravvivare la speranza. 

Il segno del pellegrinaggio 

Il pellegrinaggio esprime un valore cristologico, antropologico, ecclesiale e morale

a) Gesù è stato il grande pellegrino. Il suo grande viaggio celeste e terrestre, cosmico e universale, è avvenuto quando il Logos si è fatto carne e il Verbo incarnato è asceso al cielo. «“Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre”. Gli dicono i suoi discepoli: “Ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini. Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno t’interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio”» (Gv 16, 28-30). È il viaggio che va dall’incarnazione all’ascensione, viaggio di abbassamento e di esaltazione. La venuta nel mondo rivela l’umiliazione di Dio, l’ascesa al cielo segna la manifestazione della sua gloria. Se l’incarnazione dà inizio ai misteri della vita di Cristo, l’ascensione completa l’architettura dei sui misteri. 

Il Verbo lascia la sua dimora celeste e viene sulla terra per manifestare il volto amorevole e invisibile del Padre, e poi sale al cielo per portare con sé tutti gli uomini a contemplare il misterioso e affascinante volto del Padre di tutti. La storia dei secoli e dei millenni è un soffio di fronte all’eternità; un lievissimo soffio tra la venuta del Verbo e il suo assidersi alla destra del Padre (cfr. Sal 109, 1; Mt 22,41-44; Mc 12,35-37; Lc 20,41-44). Tutto è racchiuso tra questi due confini cioè tra le due espressioni dell’eternità: l’inizio assoluto (inizio senza inizio) e il termine finale (la domenica senza tramonto). La parusia, la venuta gloriosa di Cristo, è il termine intermedio tra la fine e il nuovo inizio. Essa segna il definitivo incontro tra il bacio eterno del Figlio verso il Padre e del Padre verso il figlio e il bacio cosmico e universale di tutta la creazione e di tutta l’umanità che, nel Figlio, si unisce al loro bacio paterno e filiale. Al centro sta il Cristo che, asceso al Cielo, ritorna e si presenta come Giudice di ogni uomo e del mondo intero.

Durante la sua vita pubblica, Gesù ha indicato a tutti il cammino da compiere. Luca presenta idealmente la sua vicenda storica lungo le strade della Palestina come un unico viaggio verso Gerusalemme (cfr. Lc 9,51-18,30), culminante nell’ingresso messianico nella città santa dove si realizza il suo mistero pasquale (cfr. Lc19,28-24,49). La sua decisione è stata ferma e irrevocabile. Luca afferma che Gesù «si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51). L’espressione assunzione evoca il rapimento in cielo del profeta Elia (cfr. 2Re2,9-11) e l’opposizione a cui va incontro (cfr. Is 50,7; Ez 21,7). Non vi è altro pellegrinaggio se non il cammino pasquale, cioè l’itinerario della via crucis che diventa via lucis. Il discepolo deve seguire le sue orme e mettersi sui suoi passi. La Prima Lettera di Pietro parla di ripercorrere le tracce lasciate da Gesù, indicando il cammino del Christus patiens che patì per noi lasciandoci un esempio affinché ne seguissimo le orme (cfr. 1Pt 2,21). Seguire le orme di Gesù significa fare tutto in laudem gloriae!

b) D’altra parte, ogni uomo è un pellegrino. Il pellegrinaggio è un bisogno che affonda le sue radici nel cuore dell’uomo perché indissolubilmente legato alla sua condizione itinerante. La nostra vita, mediante il ricorso alla metafora della strada, altro non è che un lungo cammino che intercorre tra la nascita e la morte. L’uomo è sempre in cammino; è sempre alla ricerca della verità e della bellezza. Lo spostamento fisico assume così un profondo significato: non è semplicemente percorrere una distanza geografica o raggiungere una meta a lungo desiderata, bensì è il simbolo di un percorso spirituale da compiere per tutta la vita. Si tratta di uscire da sé stessi, dalle proprie comode abitudini per mettersi alla ricerca di Dio, mossi dalla nostalgia dell’infinitamente altro che chiama ogni uomo ad andare oltre i propri limiti e nello stesso tempo si fa trovare da chiunque lo cerchi con cuore sincero. È sul piano spirituale che la nostra vita è ricerca e attesa. 

Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Il pellegrinare rappresenta un ritorno alle radici della propria fede e punta alla meta che attende ogni uomo alla fine del percorso della vita. Non da viandanti, e nemmeno da turisti, ma da pellegrini. Il viandante sta sulla strada, ma non ha una meta[2]. Il turista gode di vedere cose nuove e di girare in posti sempre diversi, ma ha in animo di tornare alla casa da cui è partito. Per il pellegrino, invece, ogni sosta è provvisoria, perché ha una destinazione ultima verso cui dirige ogni suo sforzo.

c) Il pellegrinaggio rende visibile l’immagine della Chiesapopolo di Dio pellegrinante nel tempoL’identità della Chiesa si esprime nell’itineranza del “noi ecclesiale”. Non navigatori solitari, ma fratelli che sono tutti nella stessa barca e remano nella stessa direzione. Il cristiano, in cammino con i fratelli nella fede, sa che il presente nasconde e, insieme, rivela i segni dell’invisibile. I fatti e le persone sono segnali da accogliere e decifrare perché conducono alla scoperta del vero. Occorre camminare con le lampade accese e non a fari spenti. La nostra vita attraversa momenti di buio, e la fede è la lampada posta sulla cima di un lungo bastone che non fa luce solo sul luogo in cui siamo, ma illumina l’orizzonte verso cui siamo diretti. Il tempo del pellegrinaggio ecclesiale si muove nella memoria liturgica, esperienza che supera l’ordine del visibile e si qualifica come conoscenza pasquale. È un partire per fede, è un ritornare nella fede. Il pellegrinaggio nasce, quindi, da una decisione interiore che mira al perseguimento di mete inerenti alla pratica della fede in un contesto di profonda comunione ecclesiale. 

d) Il pellegrinaggio è un cammino esodale. Promuove la conversione della mente e l’apertura a Dio, assecondando l’accesso a lui mediante la via della purificazione del cuore, attraverso la pratica penitenziale e sacramentale e l’esercizio dell’esame di coscienza. Il cammino penitenziale e la riconciliazione sacramentale non sono solo una bella opportunità spirituale, ma rappresentano un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il cammino di fede. È un’esperienza di guarigione e di gioia; la gioia del perdono dei peccati! Tale esperienza apre il cuore e la mente a perdonare e a vivere senza rancore, livore e vendetta. Il futuro, rischiarato dal perdono, consente di leggere il passato con occhi diversi, più sereni, seppure ancora solcati da lacrime.

Ugualmente utile è l’esercizio giornaliero dell’esame di coscienza. Capita a volte di vivere fuori da sé stessi, assorbiti da problemi e preoccupazioni, storditi dalla fretta e dal frastuono esterno. Si corre così il rischio di essere superficiali, tristi, frustrati, insofferenti per ogni cosa, incapaci di accorgerci del Signore che passa e indica la via del bene, della gioia, della salvezza. Il cuore è come soffocato: anela a qualcosa di grande, a una vita piena, ma si trova arido e stanco. L’esame di coscienza, dunque, è in radice la presa d’atto dell’azione di Dio in noi: egli agisce sempre e non smette mai di amarci. 

La pratica dell’esame di coscienza consiste nell’entrare in dialogo con Dio, nella preghiera fiduciosa, nel chiedergli di aprire il nostro cuore, la nostra mente, per comprendere quando nella giornata siamo stati con lui o lontani da lui. Non è tanto un confronto con delle norme, ma un dialogo con il Signore, riferendogli ciò che è successo, i nostri pensieri e i sentimenti. Consiste nell’interrogarsi sul male commesso e il bene omesso verso Dio, il prossimo e se stessi. Si tratta di accorgersi della presenza dello Spirito in noi quale guida del nostro camino. Un’utile indicazione si trova negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio al n. 43, con i cinque punti per l’esame generale: rendere grazie a Dio per i benefici ricevuti, chiedere la grazia di conoscere i peccati e di scacciarli, esaminare l’anima sui pensieri, le parole e le azioni, invocare il perdono di Dio, proporsi di correggersi con la sua grazia. 

Il segno della porta

L’apertura della porta sottintende un particolare significato cristologico e spirituale nel suo duplice movimento di entrata e di uscita. Questi due movimenti non sono da considerare in modo alternativo o in maniera disgiunta, esaltando l’uno e dimenticando l’altro. Sono invece strettamente uniti e interdipendenti. 

a) Dimensione cristologica e spirituale dell’apertura verso l’interno

Innanzitutto bisogna aprire la porta verso l’interno. Il gesto liturgico, che dall’esterno porta nell’interno della cattedrale, ha un profondo significato simbolico in quanto segna l’inizio di un tempo di rinnovamento spirituale. 

In riferimento alla dimensione cristologica, il gesto liturgico sottolinea che Cristo è la porta. Egli infatti ha detto di sé: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo»(Gv 10,9). Bisogna entrare in Cristo, vivere in comunione con lui e radicarsi in lui, consapevoli che la speranza, prima di essere una virtù, è una persona: «Cristo Gesù nostra speranza» (1Tm 1,1), «speranza della gloria» (Col 1,27). Occorre lasciarsi incatenare da lui per coniugare il verbo “sperare” non all’imperfetto, “noi speravamo” (cfr. Lc 24,21), ma al presente indicativo della prima persona plurale. 

Varcare la soglia ed entrare nella cattedrale non vuol dire soffocare o imprigionare la speranza facendosi suoi carcerieri in una sorta di “possesso clericale”, ma rafforzarla, ravvivando la convinzione di essere suoi “prigionieri”. Il profeta Zaccaria esorta: «Ritornate alla fortezza (cittadella), prigionieri della speranza! Anche oggi dichiaro che vi renderò doppio» (Zc 9,12). Questa ammonizione conclusiva dell’Antico Testamento invita a rimanere in attesa della venuta di Cristo per annodare, con un legame inscindibile, la propria vita a lui, che è la “porta e, insieme, la cittadella”. Essere prigionieri della speranza significa essere prigionieri di Cristo, rimanendo fermi e saldi nella fede in lui, «senza vacillare nella professione della speranza» (Eb 10,23).

L’apostolo Paolo esorta a essere forti, saldi e lieti nella speranza (cfr. Rm 12,12; 15,13; 2Cor 3,12; Col1,23) e avverte che la pazienza e la perseveranza fanno da ponte tra la tribolazione e la consolazione, indicando i punti di perfetto equilibrio tra i motivi di conforto e le contrarietà della vita (cfr. Rm 5,3-4). Il nostro bene è Cristo, in lui riceviamo ogni bene e assaporiamo sin d‘ora un dono che è aldilà di ogni immaginazione. La sua ricompensa supera le nostre attese perché, come dice il profeta Isaia, «quanto grande è stata la tua avversità, la tua prosperità sarà doppiamente maggiore» (Is 61,7). 

In riferimento alla dimensione spirituale il gesto di aprire la porta verso l’interno esprimerà non solo la nostra volontà di entrare in Cristo, ma anche di far entrare Cristo in noi. Egli, infatti sta alla porta e bussa (cfr. Ap 3, 20). La sua sarà la presenza del divino Pedagogo che ci prenderà per mano e ci guiderà a entrare in lui e in noi stessi. Non possiamo conoscere noi stessi se non attraverso di lui. Egli ci aiuterà a varcare la porta della nostra anima, a non rimanere in superficie, ma ad entrare in un dialogo più profondo con le nostre aspirazioni, spesso sepolte nei meandri della nostra anima. 

Una famosa espressione agostiniana riassume questo insegnamento con queste parole: «Non andare fuori, rientra in te stesso; nell’interiorità dell’uomo abita la verità. E se scoprirai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove si accende la stessa luce della ragione»[3]. Non si tratta di un’azione introspettiva, ma di un movimento riflessivo nel senso che Cristo fa da specchio all’anima e questa si vede riflessa in lui, superando l’illusione del mondo esterno e trovando la connessione con Dio, fonte ultima della verità e della felicità. La ricerca della verità, allora, si caratterizzerà non come un esercizio puramente intellettuale, ma come un cammino di trasformazione spirituale.

Nella vita, infatti, possono verificarsi momenti nei quali ci sentiamo persi, confusi o disconnessi da noi stessi. Questo senso di smarrimento può derivare da diverse esperienze in relazione a un cambiamento di vita o semplicemente in seguito a un periodo di stallo in cui ci si sente intrappolati in una routine priva di significato. Per trovare la pace interiore, occorre accettare i propri limiti e le personali imperfezioni e guardare avanti con fiducia, sapendo che la nostra esistenza ha un senso più profondo. Seguendo Cristo e lasciandoci ammaestrare da lui, la nostra ricerca di Dio e della verità troverà infine una risposta. In lui, la speranza non sarà un ottimismo superficiale, ma la consapevolezza che, alla fine, la ricerca della verità e del bene porterà frutto. Sarà come un’àncora che darà stabilità nei tempi di difficoltà e di incertezza. 

Questo cammino spirituale non avviene automaticamente, ma con l’allenamento e la pratica quotidiana di alcuni esercizi spirituali: la preghiera, la meditazione della Parola e la ricerca del silenzio esteriore e interiore. Questi esercizi spirituali giornalieri sono strumenti essenziali per scoprire la verità interiore. Sarà necessario, pertanto, riservare qualche momento della giornata per evitare le distrazioni interne ed esterne, spegnere i dispositivi elettronici e concentrarsi su Cristo che abita nella nostra anima. Ciò aiuterà a riconoscere le nostre inquietudini e a non cercare risposte evasive e superficiali. Mettere Cristo al centro della propria vita spirituale consentirà di riportare in equilibrio e serenità le nostre inquietudini e di continuare a camminare per il raggiungimento degli obiettivi spirituali prefissati. 

b) Dimensione cristologica e spirituale dell’apertura della porta verso l’esterno 

Al movimento di apertura della porta verso l’interno segue l’apertura della porta verso l’esterno: alla “Chiesa in entrata” corrisponde la “Chiesa in uscita”. I due movimenti sono interdipendenti e si realizzano in modo circolare.

Spalancare la porta all’esterno nella direzione della storia e della comunità degli uomini darà un nuovo impulso alla speranza, orientando lo sguardo verso un orizzonte planetario e cosmico. In questo secondo caso, la dimensione cristologica della speranza si caratterizzerà come un guardare la storia con gli occhi di Cristo e operare con lui per l’avvento di «cieli nuovi e terra nuova» (Is 65,17; Ap 21,1). Il comandamento nuovo consisterà nell’essere sempre pronti «a dare ragione della speranza» (1Pt 3,15), contribuendo con il proprio impegno all’avvento del Regno di Dio e a far fruttificare i doni dello Spirito, raccogliendo molto di più di quanto seminato.

Bisognerà spalancare la porta verso l’esterno non solo in senso cristologico, ma anche nella dimensione spirituale. La meditazione della Parola deve illuminare la mente e aiutarla a scrutare i segni dei tempi. È infatti «dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche»[4]. È necessario, pertanto, porre attenzione al bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenersi sopraffatti dal male e dalla violenza. Scrutare i segni dei tempi vuol dire riconoscere l’anelito presente nel cuore umano bisognoso della presenza salvifica di Dio e desideroso di essere trasformato in un segno di speranza per tutti.

Mantenere la porta della propria anima spalancata verso l’esterno significherà uscire con Cristo e, dietro di lui, annunciare al mondo la grazia e la misericordia del Padre. In un mondo afflitto e rattristato, la missione consisterà nel cantare il giubilo e la letizia che promana dalla speranza nella risurrezione di Cristo, nella consapevolezza che spesso a pagare il prezzo più alto sono proprio i giovani. Essi, infatti, avvertono l’incertezza del futuro e, non intravedendo sbocchi certi per i loro i sogni, rischiano di vivere senza speranza, prigionieri della noia e della malinconia, talvolta trascinati dall’illusione della trasgressione e dallo stimolo a mettere in atto atti distruttivi[5].

Vivere la speranza significherà esercitare la difficile arte della profezia ossia coltivare i tre momenti dello svolgersi del tempo: avere la memoria della promessa del passato, spalancare lo sguardo per contemplare il presente, rafforzare il coraggio per indicare il cammino verso il futuro. Occorre essere coscienti della promessa, scorgere la sua realizzazione nell’avvicendarsi dei tempi, aprirsi alla novità del futuro. In altri termini, significa «avere gli occhi in fronte» (Qo 2,14) e considerare la storia con «occhio penetrante» (cfr. Nm24, 2-7.15-17b).

La gioia prima della gioia della speranza bambina

Secondo la bella immagine di Charles Peguy, la speranza è una piccola bambina che cammina tra le due sorelle maggiori: la fede e la carità. Se la fede è piccola come un granello di senape, la speranza è il cuore di questo granellino. La speranza- bambina è semplice, forte e ostinata.  È l’irrefrenabile impazienza di trovare la pace tra le braccia di Dio. Non si lascia trarre in inganno da utopie terrene; non pretende di avere tutto e subito, ma si impegna responsabilmente e concretamente in questo mondo senza lasciarsi affascinare da effimere illusioni; si orienta verso il futuro, amando gli uomini e il creato per i quali spera e attende la redenzione. Soprattutto non si affligge «come gli altri che non hanno speranza» (1Ts 4, 13).

La speranza è come la fanciulla addormentata a cui Gesù ripete: «Talità kum!», giovane vita, alzati, riprendi la lotta e avviati alla scoperta dell’amore (cfr. Mc 5,21-43). Occorre lasciarsi svegliare da Cristo. Là dove l’uomo si ferma, Cristo fa ripartire, ridona forza a chi è stanco, nuova bellezza a ciò che è appassito, verticalità a ciò che si è inabissato. Su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni uomo scende la benedizione delle antiche parole: tu sei portatore di salvezza! «Talità kum»: alzati, rivivi, riprendi il cammino «lieto nella speranza» (Rm 12,12). 

Così il cuore si apre alla gioia. Il vangelo di Cristo è evangelii gaudium. Una grande gioia, infatti, apre il vangelo di Luca alla nascita di Gesù, e una grande gioia lo chiude alla sua resurrezione, quando i discepoli «tornarono a Gerusalemme con grande gioia» (Lc 24,52).  La gioia è intrinseca e connaturale al vangelo. Non è solo conseguenza dell’annuncio, ma è anche contenuto stesso dell’annuncio. Evangelizzare è trasmettere la gioia che viene dal Signore e nasce dalla stessa buona notizia evangelica. D’altra parte, la gioia è la modalità con la quale vivere la missione. Evangelizza chi già vive la gioia del vangelo. 

La gioia è segno e frutto della presenza e dell’azione dello Spirito (cfr. Gal 5,22). Attraverso il contagio provocato da chi vive la gioia del vangelo, la parola di Cristo si estenderà, mostrerà la sua capacità diffusiva e il suo intrinseco dinamismo, anche se può essere minacciata e contrastata. La vita del discepolo di Cristo è la storia di una gioia che vince su tutti i motivi di tristezza e di amarezza. 

La gioia del compimento è la gioia sperata, desiderata e attesa: la gioia prima della gioia. A tal proposito, Filone afferma: «Una volta presente, il bene è accompagnato dalla gioia; quando è atteso è accompagnato dalla speranza. Se è arrivato ce ne rallegriamo, se deve arrivare lo speriamo. […]. Dunque come la paura è una sofferenza prima della sofferenza, così la speranza è una gioia prima della gioia»[6]. Ed ancora: «La speranza è gioia prima della gioia e, seppure è imperfetta rispetto alla gioia piena, è tuttavia superiore a quella che deve sopraggiungere per due aspetti: allevia e addolcisce il peso degli affanni e annuncia in anticipo l’arrivo del bene nella sua pienezza»[7].


[1] In questa prospettiva si colloca la riflessione di E. Bloch, Principio speranza, Milano, Garzanti, 1994 (ed. or. 1959). La sua risonanza è chiaramente riscontrabile nelle teologie della speranza cfr. J. Moltmann, Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1970; Id., Nella fine l’inizio. Una piccola teologia della speranza, Queriniana, Brescia 2004. Per un bilancio critico cfr. Crisi della speranza, Milano, Glossa, 2000 (Quaderni di Studi e Memorie, 14: i contributi di G. Angelini, La speranza “militante”. Che ne è trent’anni dopo?, pp. 9-50; D. Vitali, Esistenza cristiana, pp. 30-34 e sul nesso speranza-senso J. Alfaro, Dal problema dell’uomo, pp. 9-24.

[2] Cfr.  U. Galimberti, L’etica del viandante, Feltrinelli, Torino 2023. 

[3] Agostino, La vera religione, 39, 72.

[4] Gaudium et spes, 4.

[5] Cfr. Francesco, Spes non confundit, 12.

[6] Filone, Il cambiamento dei nomi e perché avviene, a cura di C. Kraus Reggiani, Rusconi, Milano 1986, p. 163.

[7] Id., I premi e le pene, p. 161.

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