Carissimi fratelli e sorelle,
dopo l’esperienza dell’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme, tutta la comunità era radunata per celebrare il Signore, creatore e salvatore di ogni cosa, cantando inni ed innalzando lodi (Cf. Sl 147). Ieri come oggi, lo stesso invito dell’orante del Salmo responsoriale, che abbiamo pregato tra le letture, si rinnova anche per noi in quest’ora di grazia, quando siamo esortati ad elevare al Signore della vita e della storia il nostro rendimento di grazie perché «questo tempio – che è la nostra Cattedrale – tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa» (Exultet pasquale).
Saluto e ringrazio tutti voi che, con la vostra presenza, avete risposto all’invito ad unirvi alla gioia mia e dell’intera Comunità diocesana nel riaprire al culto la nostra Cattedrale, dopo i quattro anni occorsi ai lavori di restauro.
Lavori resi possibili grazie al contributo economico dei fondi dell’8xmille a favore della Chiesa Cattolica. Con il semplice gesto di una firma apposta sulla propria dichiarazione dei redditi è stato possibile tutto ciò. La credibilità di questi gesti deve indurci tutti a farci promotori di tale campagna promozionale: una firma che non costa nulla, ma vale tantissimo ed apporta tanto bene, come in questa e in tante altre circostanze.
Un grazie particolare a S. Ecc. Mons. Pietro Maria Fragnelli, a cui mi lega la successione apostolica su questa stessa Cattedra di Castellaneta, così come a S. Ecc. Mons. Giuseppe (per tutti noi don Peppino) Favale, già Parroco di questa Chiesa Cattedrale. Un vivo ringraziamento, con il dovuto ricordo, lo debbo a S. Ecc. Mons. Claudio Maniago, mio predecessore e promotore di quest’opera di restauro, oggi impossibilitato ad essere tra noi per impegni pastorali nella sua Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace.
Ringrazio, poi, Mons. Renzo Di Fonzo, nostro Vicario generale, anche per le parole rivoltemi, così come don Mauro Ranaldi, Parroco di questa Comunità parrocchiale, e tutti i confratelli presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, i seminaristi e le stimate autorità civili e militari presenti, di ogni ordine e grado; così come i fratelli della Chiesa Ortodossa Romena e quelli della Chiesa Battista di Mottola.
Desidero, inoltre, manifestare viva gratitudine a tutti coloro (e ne sono tanti, alcuni dei quali qui presenti) che, coordinati dal caro don Domenico Giacovelli, Direttore dell’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi, con professionalità e maestria, hanno curato questo restauro.
Ma fin da questo momento il nostro grazie deve essere anzitutto per il Signore: è Lui che siamo venuti ad incontrare in questa Cattedrale ed è con Lui (nel dono eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue) che siamo sollecitati a rinnovare la condivisione della nostra comunione che ci rende «benché molti, un solo corpo» (Cf. 1Cor 10,17). Ed ancora, come nel Salmo responsoriale che abbiamo pregato, anche per noi oggi si conferma il dono di essere chiamati a vivere stabilmente con il Signore, consapevoli di non aver fatto nulla per meritarlo, ma di essere sempre figli dell’amore salvante di Dio.
La Cattedrale – fratelli e sorelle, figli amati – è la madre di tutte le Chiese della Diocesi e le altre non sono che la continuità di questa Chiesa. Esse non ci sarebbero se non fossero in perfetta comunione con questa. Ed è questa Chiesa “madre” che rende visibile la comunione, la fraternità e l’unità della nostra Chiesa locale, così che si possa percepire lo stretto legame con la Chiesa universale, che nel Credo professiamo essere «una, santa, cattolica e apostolica».
Questa sera varcando per la prima volta, da quanto sono Pastore di questa nostra amata Chiesa di Castellaneta, la porta della Cattedrale è risuonata in me la parola del Salmo 118: «Apritemi le porte della giustizia: voglio entrarvi e rendere grazie al Signore. È questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti» (Sl 118,19-20). Una porta-santa quella del Tempio di Dio; una porta che introduce nel grande pellegrinaggio della vita cristiana, per trasformarci in «un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10, 16), una sola ed unica comunità. Ma questa porta che ci conduce «alla tavola del cielo, nella gioia dei suoi santi» (Sequenza), ci rammenta anche la necessità «dell’abito nunziale» per poter partecipare «alle nozze del re» (Cf. Mt 22, 1-14).
Attraversando questa porta e facendo mio l’invito di Mosè al popolo d’Israele, che stava per oltrepassare il Giordano e così entrare nella terra promessa: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere» (Dt 8,2), ho immaginato la Cattedrale come il luogo della memoria e della celebrazione, in cui tante generazioni di fedeli hanno imparato a conoscere, ad amare e a pregare il Signore.
Così come per Israele il far memoria avrebbe permesso di poter comprendere e vivere «quanto esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,14), accogliendolo nel discernimento e compiendolo nel volere del Signore anche per noi, questa sera, rientrando “insieme” in Cattedrale, è fondamentale riappropriarsi della “memoria” di fede, di carità e di santità propria di questo luogo, della quale ciascuno di noi – motivo questo di profonda riconoscenza e di gioia – è chiamato a diventare autentico protagonista. In modo, non solo da abitare sempre più questo tempo di fragilità con speranza, al fine di generare – con uno stile tipicamente evangelico – luoghi di vita e non processi di morte, ma anche per annunciare questa bella notizia (che è poi il vivere ecclesiale e civile) alle nuove generazioni, desiderose di camminare insieme, fiduciose, verso il futuro che le attende.
Con una terminologia formalmente molto “laica”, il Beato Rosario Livatino – martire di mafia dei nostri giorni – amava ripetere: «alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili». Come a dire che la fede è autentica solo se trasforma la vita e rende capaci di scelte coerenti e soprattutto coraggiose.
Dobbiamo, allora, far «risuonare – per la nostra Chiesa di Castellaneta, nuovamente – la chiamata [“alta”] alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (Gaudete et exultate, 2), a partire da quella prossimità che si manifesta nel concreto delle nostre diverse comunità parrocchiali.
Abbiamo bisogno, quindi, di lasciarci contagiare da quella «santità “della porta accanto”, – come ama indicarla Papa Francesco, cioè – di quelli che vivono [o hanno vissuto] vicino a noi e sono un riflesso [bello e stimolante] della presenza di Dio» (Gaudete et exultate 7). E, tra questi, d’ora innanzi, proprio in questo luogo (nella Cappella di Maria Santissima Consolatrice) potremo fare memoria di un testimone di vita e di fede: Mons. Giuseppe Perrone, nato qui in Castellaneta nel 1880 e morto il 15 maggio 1952, che è stato un sacerdote esemplare, culturalmente preparato, umile e discreto. Un uomo fedele alla sua vocazione, sostenuta da una profonda pietà eucaristica, per la quale amava spesso fermarsi davanti al Tabernacolo, soprattutto in solitudine, dando vita alla pratica dell’Adorazione notturna. Una persona sempre obbediente alle indicazioni dei superiori, dedito all’educazione e alla formazione di tante giovani generazioni (non solo di quelle presenti in Seminario), attento pastoralmente soprattutto a quelle persone più trascurate o prive di assistenza spirituale.
San Paolo VI, nell’indizione del Giubileo straordinario del 1966, al termine del Concilio Vaticano II, affermava: «La Chiesa cattedrale… raffigura il tempio spirituale che interiormente si edifica in ciascuna anima, nello splendore della grazia, secondo le parole dell’apostolo: “Voi siete il tempio del Dio vivente” (2Cor 6,16)» (Costituzione Apostolica, Mirificus eventus).
Infatti, ciascuno di noi, con il dono del Battesimo, è costituito come «pietra viva» e partecipa alla costruzione dell’«edificio spirituale» (1Pt 2,5). Siamo, infatti, delle “pietre viventi”, unite profondamente, cementate dalla carità per mezzo di Gesù Cristo, che non è solo la pietra angolare e di sostegno, ma soprattutto il basamento di fondazione tra di noi, per l’edificazione dell’unico popolo di Dio.
Essere «tempio del Dio vivente», allora – proprio a partire dal concetto di unità che promana da questo luogo –, significa vivere tra di noi una profonda esperienza di comunione e di concordia che si fa accoglienza nella «sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” del vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea – a volte – un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità» (Evangelii gaudium 87), laddove a prevalere sia sempre il principio dell’unità, quale «convivialità delle differenze» (Tonino Bello), e la comunione non sia solo il frutto della buona volontà o di stratagemmi pastorali, quanto piuttosto l’obbedienza evangelica insegnataci da Gesù nell’ora oscura della prova: «Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà!» (Lc 22, 42).
La solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, che già stasera ed in questa circostanza stiamo celebrando, ci ricorda che l’eucarestia è il cuore della comunione ecclesiale. Perché, prima di ogni altra cosa, la Chiesa è il mistero dell’incontro tra Dio e l’umanità. E, come affermava il grande teologo Henry De Lubac: «L’eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa celebra l’eucarestia». Ma soprattutto, nell’invito a «mangiare la carne e bere il sangue del Figlio» è manifestata la certezza di fede del «rimanere in Lui e Lui in noi» (Cf. Gv 6, 56); con l’esito di una profonda e perfetta unità, che altro non è che una vita di comunione tra di noi. Anche durante la preghiera eucaristica nella celebrazione della Santa Messa si prega per questo dono particolare chiedendo allo Spirito Santo che «ci riunisca in un solo corpo» (Preghiera eucaristica II).
La partecipazione all’eucaristia, allora, ci fa una sola cosa, e soprattutto ci rende “uno” in Cristo. E, «se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).
Siamo una cosa sola perché “tutti” partecipiamo di quell’unico pane. Ecco perché è profondamente sbagliato vivere un rapporto con l’eucaristia di tipo intimistico ed individualistico, come se la comunione (il “mangiare” di Lui) fosse semplicemente il rapporto tra il singolo e Gesù, immaginato come una relazione che quasi ci tira fuori dalla realtà e ci trasporta in una dimensione «celeste». Niente di tutto questo.
Vogliamo vivere integralmente il dono dell’eucarestia?
Vogliamo dare senso autentico alla proposta di Gesù rivelata nelle parole proclamate nella pagina evangelica: «Se non mangiate…»? (Gv 6,53).
Fratelli e sorelle, la verità si riconoscerà dal fatto che abbiamo – nella reciprocità – amore gli uni per gli altri e inizieremo o continueremo ad amarci gli uni gli altri come lui ci ha amato (Cf. Gv 15,9-17). Nel precetto dell’amore, pane spezzato e gesto di carità, è scritta la novità eucaristica per la vita.
Guardando e contemplando questa nostra Cattedrale, chiedo al Signore di renderci – quale comunità chiamata a camminare insieme – sempre più «un cuor solo ed un anima sola» (At 4,32), con il dono di una comunione più intensa nella corresponsabile partecipazione e nella comune ed operosa missione di dover testimoniare ed edificare la Chiesa. Lo sappiamo tutti bene che non è certamente facile da realizzare, così come non lo è il restaurare una Cattedrale, perché resta sempre altro da fare. Ma l’importante è provarci ed osare, ascoltando il profondo battito dei segni dei tempi, senza cedere a sterili esitazioni o rigidi perfezionismi, consapevoli dell’azione misericordiosa del Signore sulle comuni ed umane fragilità.
Su alcune porte di Chiese ho trovato una simpatica scritta: «qui si entra per pregare Dio, da qui si esce per amare il prossimo».
Sia questo l’impegno di vita che la riapertura della Cattedrale consegna a ciascuno di noi. E per questo, l’immagine dei lavori di restauro che hanno tenuto chiuso questo edificio sacro possa sollecitare sempre e di nuovo, quel lavorio interiore della nostra vita, chiamata ad una sincera e permanente conversione.
Da questa prospettiva di vita, il “cantiere della comunione” non potrà mai ritenersi concluso, perché saremo di continuo interpellati a confrontarci con i “lavori in corso” di una Chiesa sollecitata a caratterizzarsi sempre più per la bellezza della sua tipica “dimensione domestica”, che «non porta a chiudersi nel nido, a creare illusioni di uno spazio protetto e inaccessibile in cui rifugiarsi», quanto piuttosto nell’essere una casa con le «finestre ampie attraverso cui guardare e grandi porte da cui uscire per trasmettere quanto sperimentato all’interno – ossia attenzione, prossimità, cura dei più fragili, dialogo – e da cui far entrare il mondo con i suoi interrogativi e le sue speranze» (Cf. I cantieri di Betania, Prospettive per il secondo anno del Cammino sinodale, p. 9).
È questo il lavoro che ci attende – e nella nostra scelta diocesana – con un’attenzione privilegiata alle “famiglie”, quali prime ed imprescindibili “Chiese domestiche”, in cui si possa sperimentare sempre più accoglienza, ascolto e partecipazione, così che comunità cristiana e famiglia siano più unite dall’unico annuncio del Vangelo, in un reciproco servizio di fede e di cura.
Volgiamo ora il nostro sguardo alla Vergine Maria, a cui questo tempio è dedicato, perché con la sua vita ci insegni a «cercare le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio» (Col 3,1).
A lei chiediamo di farsi mediatrice perchè il Signore: «conceda a questa sua famiglia, che è la nostra Chiesa di Castellaneta, raccolta intorno al suo pastore, di crescere mediante il Vangelo e l’Eucarestia, nella comunione dello Spirito Santo, affinché divenga segno e strumento della presenza di Cristo nel mondo».
Amen!
+ Sabino Iannuzzi