Nel seguito del Discorso della pianura che Gesù, sceso dal monte, ha inaugurato con le beatitudini, sopraggiunge un’ulteriore “discesa” in regioni scabrose. Come l’annuncio delle beatitudini –paradossalmente – prende luce ulteriore dai “guai” che vengono proclamati da Gesù quasi in controcanto, così la misura “scossa pigiata, traboccante” della misericordia riceve proporzioni più nitide dalla successiva sconcertante parabola della “guida cieca”, metafora della pretesa empia di fare del Dono una proprietà, ed ergersi a maestro del prossimo: di giudicare, misurare, imporre.

Quale annuncio propone Gesù nella parabola del cieco che si erge a guida? Dobbiamo ascoltarla intuendo un mite sorriso di humor sulle labbra del Maestro. Una sapienza spiazzante. La pretesa stolta – Gesù sta parlando volgendo lo sguardi ai suoi discepoli – di dare ciò che non si è ricevuto, di essere guida senza rimanere discepolo; di impossessarsi, di farsi padroni e guide della Luce: è pretesa inevitabilmente destinata a “cadere in una buca”: a rimanere sterile e buia. Solo chi rimane perennemente con Gesù da discepolo, porta frutto; al contrario, è tentazione luciferina l’essere “di più” del Maestro – la pretesa di imporre una propria misura, una graduatoria, un proprio controllo all’incommensurabile e generativa Misericordia che fa, dei discepoli, fratelli (Mt 23,8).

Nell’intera narrazione evangelica, quando Gesù ricorre al linguaggio della parabola è perché si trova a un gap della comunicazione. Eppure sente l’urgenza di dire – ne va della verità piena – ciò che l’interlocutore non sa o non vorrebbe ascoltare a proposito del mistero del Regno. È così nelle parabole degli inizi, come in quelle che caratterizzano le ultime dispute di Gesù coi capi del popolo. Ebbene, anche l’intensa parabola del cieco che guida – seguita poi da quella della pagliuzza nell’occhio e della trave, e poi da quella dell’albero riconoscibile dai suoi frutti – segnala quest’impasse che verosimilmente riflette una situazione di comunità. È un apoftegma per sé noto anche alla letteratura umana sapienziale, ma nel discorso di Gesù ai discepoli la metafora acquista senso nuovo.

La parabola dei ciechi, che tanto ha sollecitato anche le arti (penso alla suggestiva tela ad olio di Brueghel, o all’opera teatrale di G. Hofmann, che tuttavia danno una loro interpretazione del testo evangelico, in chiave di amara lettura dell’epoca) è dall’evangelista Luca riferita – diversamente da Matteo che (15,14) la applica ai farisei, nel contesto della polemica sul puro e l’impuro – proprio al discepolo che si erge a guida, non dunque agli avversari di Gesù.

Dal fariseo, al discepolo: questo spostamento di referenza è pieno di simbolo. La logica evangelica della felicità, della sovrabbondanza, della misura eccedente, propria della misericordia (Lc 6,36-38), esclude ogni spirito di dominio sull’altro, di supremazia auto riferita. Cieca è la guida che previamente non dedica attenzione a vedere e a togliere – in postura discepolare – la propria trave.

Nessun elitarismo gnostico regge di fronte alla semplicità della sequela che genera una forma: la sinodalità fraterna (come anche Matteo al c. 23,24 rivela con forza) e l’umiltà radicale che la fonda.

Ipocrisia sostanziale – accanto e previa a quella di chi dice e non fa – è ergersi a giudice dell’altro, pretendere di scrutarne e dominarne la coscienza senza alcuna sana autocritica. Pungiglione di morte (II lettura) è la presunzione.

Quella di “un discepolo ben preparato” è invece la forma liberante della guida nella comunità (6,40): libero da pensieri, giudizi, misure proprie; sua autorità è una pienezza non auto costruita ma ricevuta per grazia. “Tu, convertito, conferma i tuoi fratelli”, dirà Gesù al Simone, in quel suo momento di presunzione (Lc 22,32).

Così il Discorso della pianura si delinea, attraverso questo passaggio critico, decisamente alternativo a qualsiasi dolciastro e devoto sermone consolatorio o moralistico. Potremo dire, tenendo conto dell’attuale situazione ecclesiale: è la grazia di avviare un processo “sinodale” nuovo, liberante, generativo, che passa al vaglio il cuore e tutti i suoi ingombri. La pienezza – il “di più” (Gv 21,15; cf 14,12) appannaggio della guida – è tutt’altro da tutti quei pesanti auto assolvimenti a scapito del prossimo che caratterizzano il potere mondano.

Il perisseuma kardias (Lc 6,45) la sovrabbondanza del cuore da cui scaturisce la parola “autorevole”, che edifica, è quel mare aperto (Mt 12,34) nel quale nuota il cuore reso beato nella sua povertà, nella fame e sete, nelle lacrime e persecuzioni per il Vangelo. Una sovrabbondanza che solo il povero conosce nella sua capacità sorgiva di accogliere a mani vuote e gratuitamente condividere (2 Cor 8,14)

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