Lasciamoci avvolgere, carissimi, dalle due sorprese che stasera sono davanti ai nostri occhi…
La prima è costituita da tutti noi. Siamo una bella assemblea, formata da numerosissimi laici e da tanti presbiteri e religiosi, e, qui, in Cattedrale e fuori dalla Cattedrale, attorno al vescovo, rappresentiamo la chiesa intera che con fede fa spazio alla presenza viva del Signore e con Lui all’intera comunità dei santi. Ogni distanza tra cielo e terra ora è così abbattuta e si ristabilisce, sia pur nel mistero, l’armonia di quel progetto divino che era fin dall’origine.
La seconda e non minore sorpresa è vedervi qui, tutti tre insieme, carissimi don Ciro, don Luca e don Michele. Siete il segno che il Signore crede in voi e investe sui vostri cuori e noi vi accogliamo come il frutto maturo della nostra comunità diocesana. Le vostre vocazioni, infatti, non sono nate dal nulla, ma sono sbocciate dalla preghiera e dagli sforzi di chi vi ha accompagnato negli anni della formazione.
È l’incontro con il Signore che ha dato un preciso orientamento alla vostra vita! E ora, Egli stesso, dopo avervi chiesto con il diaconato di donare l’intera esistenza, attraverso l’imposizione delle mani e la preghiera di Ordinazione, vi conformerà per sempre a lui, buon pastore dell’umanità. Per questo, da oggi, il vostro discepolato non si interromperà, ma diventerà ancora più avvincente e impegnativo, perché si tradurrà nello stare con Lui e in Lui e, conseguentemente, nell’assumerne lo stile, non ammettendo deroghe sulla scelta di fondo di “dare la vita ogni giorno per le sue pecore”. La tenuta quotidiana di questa misura, poi, sarà la prova tangibile che il vostro cammino non si è arrestato, sapendo, come ricordava don Francesco Maria Vassallo, che “la strada incomincia quando un cuore si avvia perdutamente”. La vostra vera profezia che, a dire il vero, è già interamente scritta nel battesimo e che, non di rado, tuttavia, rimane incomprensibile ai più, sarà quella di morire per vivere, come folle alternativa, rispetto a chi, rassegnato, si lascia andare in un vivere per morire. Dopo l’immersione nelle acque del Battesimo, continuate ad immergervi nelle sorgenti vive della grazia, che saranno la fonte inesauribile del vostro ministero e, per questo, la ragione più intima della vostra esistenza. Tanto che solo chi giungerà, grazie a voi e con voi, a queste sorgenti che fluiranno dal vostro sacerdozio, potrà comprendere l’importanza e l’urgenza della missione che il Signore vi sta affidando. Una missione che in alcun modo potrà lasciarsi intrappolare dalla diffusa mentalità che, forse, vi accetterà come figure di ieri e in via di estinzione, ma senza più credere alla reale incidenza del vostro ruolo nel concreto vissuto della gente. La vostra missione, invece, nella misura in cui avrà l’efficacia del lievito, del sale e della luce e, come quella di Cristo, saprà diventare “segno di contraddizione” in rapporto a logiche usurate che pure ci attraversano in tante maniere, sarà piuttosto “fuoco”, come amava definirla don Felice Canelli.
Il vangelo che abbiamo ascoltato ci mostra – per conferma – che lì dove è presente il Risorto, il vecchio cede il posto al nuovo.
In questa pagina di Giovanni, da una parte c’è il richiamo della “sera” che è il momento della giornata in cui tutto si ridimensiona: frenesie, ansie, fallimenti; il momento in cui, a volte, constatiamo di aver perso dalla bocca l’oro che avevamo al mattino. La “sera” cui allude il vangelo, poi, oltre al resto, portava con sé anche il carico devastante di un odio ingiusto che aveva visto il maestro di quei discepoli morire da innocente. Quelle ultime ore di quel giorno registravano, insomma, un bilancio davvero triste: un terribile tradimento, un affetto spezzato, un doloroso ricordo e nulla più.
Se da una parte c’è la “sera” con le sue ombre, dall’altra, però, c’è subito il rimando umanamente insperato ad un “primo giorno della settimana”, la cui regia non è più nelle mani dell’uomo, ma in quelle di Dio che, solo, ha il diritto dell’ultima parola sugli eventi della storia, inserendoli nella luce dell’eternità, dove il giorno è senza tramonto. È proprio dall’eternità, infatti, che la buia terra riceve luce. Sono “i cieli” a narrare “la gloria di Dio e proprio da essi “esce il sole come sposo dalla stanza nuziale” (Salmo 19) per raggiungere la terra dove Dio stesso, per stare in nostra compagnia, ha montato “una tenda”. E da allora, chi è rassegnato vede solo il tramonto del sole, chi spera, invece, riesce a intravedere, già fin d’ora, le prime luci dell’alba del primo giorno della settimana, del primo giorno di una nuova vita. Con voi, carissimi don Ciro, don Luca e don Michele, sta di nuovo albeggiando. In voi si incarna la speranza.
E poiché il vostro ministero attraverserà ogni giorno momenti di buio e momenti di luce e si muoverà nei ripetuti contrasti tra fine ed inizio, siate testimoni di sempre nuovi inizi e aiutate tutti a saper ricominciare, cercando il raggio verde di nuove albe negli orizzonti del cuore e delle relazioni.
Il contrasto evangelico tra vecchio e nuovo continua e questa volta ci presenta lo schianto delle “porte”, “chiuse” dalla fuga, dal rifiuto di incontrare gli altri, dalla necessità di difendersi dai possibili aggressori e, non ultimo, dal fare verità su loro stessi. Gli 11, infatti, erano uniti, ma chiusi, consegnandoci la brutta immagine di un cenacolo senza uscita e senza luce, di un cenacolo che aveva smesso di essere fecondo. Anche se la presenza in esso della Vergine Maria, già madre della Chiesa, lascia trasparire nuove gestazioni, pur dopo dolorosi travagli.
Dietro ogni porta chiusa, comunque, è sempre nascosto un dramma e, di conseguenza, qualcuno che spera e che attende. Tra quelle quattro tristi e soffocanti mura i discepoli si saranno chiesti il perché di ciò che era successo, il motivo di tanta efferatezza contro Gesù, il perché della loro codardia. Quante domande… molto simili a quelle senza risposta che ogni uomo porta con sé.
Ma per contrasto, proprio in quel contesto blindato, andando oltre ogni legge fisica e superando ogni chiusura difensiva, Gesù, il Risorto “viene” e “sta in mezzo”. Viene a ricomporre un equilibrio che si era rotto. “Viene” senza farsi pregare e, come sempre, gioca d’anticipo, perché non ama vincere da solo e, raccogliendo i cocci della loro esistenza disorienta, vuole rimodellare quei suoi amici per farli rinascere come testimoni appassionati e coraggiosi. Non ha senso, infatti, un cenacolo senza di lui e nessun altro in esso può prendere il suo posto. Al centro della comunità dei discepoli, di ieri e di oggi, non può esserci che Lui. Come ai tempi di Mosè, Dio ha udito il lamento dei suoi e torna ancora, per un atto di amore, perché nessuno si rintani nel buio delle proprie fobie e nessuno nel dolore dimentichi che è stata ribaltata ogni pietra sepolcrale. Il paradosso dell’amore di Dio sta nel continuare ad amare, nonostante tutto, e nel donare, inaspettatamente, la pace. Questa, però, non è un trattato di non belligeranza, una momentanea e fragile tregua ed è, ancor meno, la risultante di equilibri diplomatici. La sua pace è offerta incondizionata di sé. Il suo volto è pace. Egli non conosce altri linguaggi.
Viene e “sta in mezzo” a loro, perché chi ama non ha paura di entrare nelle situazioni di dolore e di disagio, di attraversarle fino in fondo e di rimanerci. Lo aveva già fatto sul Calvario e ora lo fa da Risorto.
Il vostro ministero, carissimi don Ciro, don Luca e don Michele, permetta di vincere ogni paura, ogni cancrenoso sospetto sull’altro, ogni chiusura. Il sacramento dell’Ordine che riceverete tra pochi istanti vi spinga a non dedurre mai solo dall’ostinata coerenza dei vostri pensieri, ma vi solleciti a saper ricominciare sempre da Lui, dalla sua logica di recupero e dalla pace che egli dona. Il vostro ministero sia sempre benedizione, anche lì dove tutti si ostinano a vedere solo il male. E vi accorgerete ben presto che ogni volta che amerete, voi stessi per primi passerete dalla morte alla vita, vivendo processi pasquali e, nello stesso tempo, aprirete porte chiuse da tempo, raggiungerete cantine esistenziali che nessuno sperava ormai di raggiungere e potrete sperimentare anche voi che, per chi ama, “nessuno è un estraneo o una minaccia o un capro espiatorio, ma solo un vicino, un fratello e una sorella” (Card. Tagle, Giubileo delle famiglie religiose e dei movimenti laicali del Preziosissimo Sangue, 1° luglio 2025).
C’è ancora un altro contrasto nell’episodio dell’apparizione del Risorto, che abbiamo ascoltato. Da una parte ci stanno due mani e un fianco, feriti mortalmente. E questo, forse, non ci stupisce poiché sappiamo quanto l’uomo, diventando lupo, sia capace di fare il male. Davanti ad esso, infatti, ci fermiamo spesso con uno strano e remissivo senso di impotenza, soprattutto quando constatiamo che l’ingegno umano si specializza, sempre più impietosamente, per colpire meglio, ma con le solite giustificazioni ferine le mani, il fianco, il cuore e la dignità delle persone.
Dall’altra parte, però, proprio quelle mani, bucate dai chiodi e quel fianco, squarciato dalla lancia, dicono fin dove si è spinto il Signore nel dono di se. E se apparentemente sono lo sconcertante indizio di come l’uomo sia solito risolvere le cose, in realtà, soprattutto ora che sono trasfigurate, sono espressione del suo misericordioso e infinito amore. Quel costato e quelle mani, ora, sono ancora qui, aperti, e sono diventati l’inesauribile e sicura sorgente di grazia, dalla quale continua a nascere e a essere rigenerata la chiesa. Quelle mani e quel fianco sono il vivo segno di riconoscimento dell’unico ed eterno sacerdozio di Cristo, nel quale si inserisce il vostro, per un puro atto di misericordia divina, come ci ricorda san Paolo.
Sul manifesto che annuncia la vostra ordinazione è raffigurato un calice grondante sangue. Esso non solo richiama il mistero che si avvera in ogni eucaristia, quando le ferite del Signore si aprono di nuovo per effondere la fede in tutto il mondo, secondo una felice espressione di san Pietro Crisologo di Ravenna, ma rimanda anche a tutto il mese di luglio, dedicato al preziosissimo sangue di Gesù.
È vero! In quel calice, posto sull’altare, avviene ogni giorno qualcosa di incredibile. Don Divo Barsotti affermava: “veramente la Messa è la salvezza dell’universo e noi non possiamo vivere altro che questo mistero” (La mistica della riparazione, Edizioni Parva 2011, p. 18). Occhio a non pronunciare con leggerezza le espressioni “mio sangue” e “mia carne”, non solo in ragione della necessaria consapevolezza del mistero che accade durante la messa, ma anche perché a noi che ci nutriamo di Lui, il Signore chiede che il suo sangue diventi il nostro, che la sua carne diventi la nostra. Sarà questa la misura del vostro sacerdozio, ben lontana dalle lusinghe di chi tenterà di ammaliarvi con convenienze, sicurezze, opportunismi. La verifica immediata di ciò sarà, poi, la vostra disponibilità a dire di “sì”, contro la comoda, ma pericolosa scorciatoia dei “no” che le vostre paure cercheranno di porre come la soluzione più allettante e sicura.
I discepoli, poi, ci dice il testo, finalmente “gioirono nel vedere il Signore”. Quella gioia aveva il sapore di una vera confessione di fede, anche se non ancora elaborata. Il loro cuore aveva ceduto, aveva smesso di ripiegarsi sulle loro ferite e si era lasciato riscaldare da quell’amore di cui avevano bisogno, ma che pensavano ormai di non poter ricevere più. È la gioia del peccatore che si sente amato e perdonato; un po’ come quella sperimentata da Zaccheo e da tutti quelli che il Signore incontrava sulle vie della Palestina. Accade così, in maniera sorprendente, che, proprio nel momento in cui stanno per desistere, Egli affida loro la missione della pace perché diventassero, a loro volta, capaci di perdonare le crepe ingiustificabili di questo mondo. Infatti, “la pace di Cristo – ha affermato Papa Leone XIV durante il Giubileo delle Chiese Orientali, il 14 maggio scorso – non è il silenzio tombale dopo il conflitto, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita”.
Il Signore non lascia margini ad incertezze: per due volte dona loro la pace e per ben quattro volte consegna loro la parola “perdono”. La gran parte del vostro ministero, cari don Ciro, don Luca e don Michele, si giocherà qui. Non dimenticate che lo scandalo rivoluzionario del cristianesimo passa proprio da questa “porta stretta” che riesce ad attraversare chi è consapevole che può donare il perdono e la pace solo chi li ha ricevuti per primo. E tutti noi siamo stati perdonati. In ogni istante il Signore continua ad usarci misericordia e a donarci la “sua” pace.
Forti di questo, non cedete mai alla tentazione di perdervi d’animo, sapendo che la missione appartiene a Dio, né a quella di annunciare voi stessi con sottili astuzie, perché non ne vale la pena, non potrà funzionare e, soprattutto, perché un annuncio addomesticato deluderà ben presto le aspirazioni più profonde del vostro cuore e, non di meno, le attese e le speranze di chi incontrerete. San Paolo – lo abbiamo ascoltato – mette in guardia tutti da queste possibili derive.
Stasera siete un prezioso dono per noi perché ci state dicendo: “Siamo i vostri servitori, a causa di Gesù”. Fatecelo capire sempre! Ne abbiamo bisogno. Ne ha bisogno l’intero presbiterio che oggi vi accoglie con gioia. E facendo mie le parole che S. Paolo VI, nell’anno Santo del 1975, rivolgeva ai sacerdoti, vi dico: “… il mondo ha bisogno di voi! Il mondo vi attende! Anche nel grido ostile ch’esso lancia talora verso di voi, il mondo denuncia una sua fame di verità, di giustizia, di rinnovamento, che solo il vostro ministero potrà soddisfare. (…) Sappiate ascoltare il gemito del povero, la voce candida del bambino, il grido pensoso della gioventù, il lamento del lavoratore affaticato, il sospiro del sofferente e la critica del pensatore! Non abbiate mai paura!”.
E fateci capire sempre bene quello che vi è successo. Il vostro ministero non sia mai impersonale: siete stati chiamati, condotti per mano e amati voi per primi e ora, da “missionari innamorati”, siate contenti solo nella misura in cui riuscirete “a provocare il felice incontro con l’amore di Cristo che abbraccia e che salva”, come ci ricordava Papa Francesco nella Dilexit nos (n. 208).
E anche se, come tutti noi, anche voi vi riconoscerete “vasi di creta”, sentitevi sempre ricolmi di uno straordinario dono, che – di cuore – vi auguriamo sempre traboccante, come quello che scaturisce dal grembo della Vergine Maria, cui affidiamo la vostra vita e il vostro sacerdozio. Amen
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