Omelia nella Messa del giorno di Natale
Chiesa Cattedrale, Ugento 25 dicembre 2023. 

Cari fratelli e sorelle,

«il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14), annuncia la liturgia della Messa del giorno di Natale. Assumendo la natura umana, il Verbo incarnato si sottomette alle sue leggi, escluso il peccato. Senza rinunciare alla comunione trinitaria, nasce in una famiglia umana, appartiene a una stirpe di cui si può ricostruire la genealogia, vive inserito nella storia di un popolo, alla periferia del grande impero romano. 

Ci piace ancora il presepe? E quale Natale festeggiamo?

La nascita di Gesù non è, dunque, un mito, ma un fatto storico, realmente accaduto con il suo messaggio sconvolgente: Dio abita per sempre in mezzo agli uomini. Anzi, Dio stesso si è fatto uomo. Questo è la sostanza della fede al di là di tutte le rappresentazioni, alcune anche fuorvianti, se non blasfeme.Provocatoriamente un sacerdote ha proposto un presepe “spoglio”, limitato alla sola capanna, senza persone, senza animali, senza neppure la paglia[1]. Il vuoto della capanna rappresenta anche il vuoto della cultura contemporanea che cerca di mettere sotto silenzio il vero e profondo significato del Natale, anzi di eliminare del tutto questa ricorrenza per trasformarla in una “festa invernale”. 

In questo clima, appare profetico l’interrogativo che Eduardo De Filippo in “Natale in casa Cupiello” poneva sulla bocca del padre, protagonista della commedia. Rivolto al figlio, gli domandava: «Te piace ‘o presepe?». La risposta negativa del figlio sembra interpretare il contrasto e la dialettica tra la tradizione che abbiamo alle spalle e i cambiamenti culturali che si agitano nel presente e desiderano affermarsi nel futuro. 

In questo contesto, vale la pena di richiamare la distinzione proposta da Papa Francesco lo scorso 21 dicembre nel discorso alla Curia Romana: siamo abitudinari o innamorati? Il Natale di Gesù è un simbolo a cui ci siamo abituati o di cui siamo innamorati? Siamo innamorati della persona di Gesù o della festa che celebriamo in sua memoria, fino a trasformarla in una ricorrenza senza alcuna memoria dell’evento? Siamo forse arrivati a fare la festa senza il festeggiato? A illuminare la nostra vita è la fede in lui o sono solo le luci esteriori a dare un po’ di calore umano ai nostri giorni? Certo, Gesù è venuto per mostrare la solidarietà di Dio con gli uomini, in modo particolare con i poveri. E ci ha comandato di amare i poveri per amore suo e di amare lui nei poveri, in un inscindibile legame tra fede e carità. Ma noi vogliamo esaltare solo la carità mettendo sotto silenzio la fede, elogiare l’attività solidaristica dimenticando il primato della preghiera e della liturgia?     

Il realismo dei racconti evangelici dell’infanzia di Gesù

Dobbiamo guardare il presepe con uno sguardo intriso di fede e considerare la bellezza della scena familiare che raffigura: una donna e un uomo sono accanto a un bambino in un luogo povero, “una stalla” o una “grotta”. La significativa immagine va compresa sul piano storico e sul suo contenuto misterico.  

Quando al primo aspetto bisogna ricordare che nella Palestina dei tempi di Gesù, le stalle erano per lo più costruzioni precarie di legno appoggiate ad anfratti naturali o scavati nella roccia, così che dire “grotta” o “stalla” era praticamente la stessa cosa. Per questo nelle immagini paleocristiane della “natività”, la nascita veniva collocata in una stalla a forma di tettoia, mentre nelle antiche icone orientali il Bambino è avvolto in fasce dentro una grotta profonda e buia[2].

Gli evangelisti Matteo e Luca concordemente pongono la nascita di Gesù a Betlemme, città natale di Giuseppe. L’evangelista Luca, però, parlando della visita dei pastori, usa un linguaggio evocativo e afferma: Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia (ἐν φάτνῃ), perché non c’era posto per loro nell’albergo (ἐν τῷ καταλύματι)» (Lc 2,7). Il termine kataluma, usato nel testo originale non indica “l’albergo” per il quale utilizza il termine pandokheion, ma la “stanza degli ospiti” o, più in generale, “l’alloggio”. 

Matteo, invece, parlando della visita dei Magi, usa il termine oikia, che significa “casa” nel senso reale di abitazione (cfr. Mt 2,11). Ne consegue che il luogo della visita dei Magi è distinto rispetto a quella dei pastori. Ciò significa che la visita dei pastori avvenne al tempo della stessa nascita di Gesù e nel luogo in cui egli nacque, mentre quella dei Magi avvenne qualche tempo dopo, non nel medesimo luogo della natività di Gesù, ma in una “casa” (“oikia”), nella quale nel frattempo la famiglia di Gesù si era trasferita. 

Si può pensare che i due evangelisti dipendano da tradizioni familiari differenti da essi raccolte e inserite narrativamente e teologicamente nel proprio vangelo. Non hanno però voluto enunciare solo verità teologiche in forma di racconto (theologúmena) senza riferirsi a fatti storici. Allo stesso modo sarebbe fuori luogo pretendere una verità storica assoluta in senso moderno di storicità. Definire il loro racconto come un procedimento midrashico o derashico non implica affatto negare o minimizzare la storicità dei fatti narrati. Molto più realisticamente gli evangelisti hanno rielaborato tradizioni ricevute e le hanno inserite nella loro specifica visione narrativa e teologica. Nonostante tutto, il racconto rimane una bellissima scena dal sapore familiare con un fondamento storico e un risvolto misterico.

            Il Natale, festa di famiglia

Sotto questo profilo, l’affermazione che «il Natale è una festa di famiglia» non indica soltanto la dimensione familiare e intima con cui si vivono questi giorni di festa, ma significa anche l’annuncio del valore della famiglia alla luce della famiglia di Nazaret: quella famiglia rappresenta il modello per la famiglia naturale e per la famiglia umana. 

Certo, non sono poche le contraddizioni culturali, sociali ed economiche che gravitano sulla famiglia, acuite dalle tensioni indotte da una esasperata cultura individualistica che generano al suo interno dinamiche di insofferenza e di aggressività a volte ingovernabili. Tuttavia la famiglia resta ancor oggi, e rimarrà sempre, il pilastro fondamentale e irrinunciabile del vivere sociale. Rappresenta un valore fondante e una risorsa insostituibile per lo sviluppo armonico di ogni società umana[3]. Da una parte, infatti, costatiamo le fragilità, dall’altra ammiriamo la bellezza e la grandezza della famiglia. La sfida del nostro tempo consiste nel saper vedere la bellezza dentro le fragilità e nell’accogliere le fragilità come occasione di ritrovare la bellezza perduta. 

Per questo, nonostante la crisi che l’istituto familiare attraversa nel nostro tempo, anzi proprio a motivo delle sue profonde difficoltà, è opportuno richiamare il valore familiare della festa di Natale. «Conservate al vostro Natale – diceva san Paolo VI – il suo carattere di festa domestica. Gesù, nascendo al mondo, ha santificato la vita umana, nella sua prima età, l’infanzia; ha santificato la famiglia, la maternità specialmente; ha santificato la casa umana, il nido degli affetti naturali più cari e più comuni […]. Fate in modo di godere il vostro Natale, per quanto possibile, con i vostri cari, date loro il dono della vostra affezione, della vostra fedeltà a quella famiglia da cui avete ricevuto l’esistenza»[4].

Questa esortazione vale anche per l’intera famiglia umana. Non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle. Come la famiglia naturale ha bisogno di una casa, di un ambiente a sua misura in cui intessere le proprie relazioni, così per la famiglia umana la terra è l’ambiente che Dio Creatore ha dato perché la abitassimo con creatività e responsabilità. Purtroppo l’umanità vive oggi grandi divisioni e forti conflitti. Le due guerre in Ucraina e in Palestina, le tensioni crescenti in varie aree del mondo gettano ombre cupe sul suo futuro. Vi sono anche grandi timori per l’equilibrio ecologico. Fondamentale, a questo riguardo, è riconoscere la terra come la «casa comune». 

Riscoprire le virtù personali e sociali 

Il mistero del Natale, in quanto festa della famiglia, presenta al mondo lo stile di Dio nella prospettiva della casa e della famiglia di Nazaret: l’umiltà, la sobrietà, il nascondimento. Nella famiglia si impara (o si dovrebbe imparare) a vivere. Per questo san Paolo VI ha scritto che questa famiglia è «la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare»[5]

Siamo così invitati ad ispirarci al modello di umanità della famiglia di Nazaret, solido fondamento di valori spirituali ed etici. In altri termini, occorre rimettere in auge nella famiglia e nella società la forza e la bellezza trasformante delle virtù[6]. «Fratelli, – esporta san Paolo – tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8). 

Le virtù cardinali (giustizia, prudenza, fortezza e temperanza) associate alle virtù teologali (fede, speranza e carità), costituiscono per i cristiani il sentiero da percorrere per vivere la propria esistenza secondo l’insegnamento del Vangelo. Su questo fondamento morale e teologale, si radicano le virtù umane, che sono «attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni abituali dell’intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la ragione e la fede. Esse procurano facilità, padronanza di sé e gioia per condurre una vita moralmente buona. L’uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene»[7].

A causa degli effetti negativi provocati dai profondi cambiamenti culturali e dall’uso indiscriminato e manipolatorio dei social, mi sembra opportuno richiamare alcune virtù particolarmente urgenti nel nostro tempo. Innanzitutto occorre ricuperare la fiducia in Dio e negli uomini. Secondo santa Teresa di Lisieux, è proprio «la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore!»[8]. Quando manca la fiducia è più facile che si alimenti l’odio e l’inimicizia. Occorre, invece, coltivare la fiducia in Dio e nell’innata bontà dell’uomo, nonostante, talvolta, si è di fronte a comportamenti sgradevoli che offendono la stessa dignità umana. Senza questo fondamento, la vita familiare si disgrega e quella sociale diventa solo un’aggregazione di vicini, non una comunità di fratelli e sorelle, chiamati a formare una grande famiglia.

In secondo luogo, è necessario riappropriarsi del valore del silenzio. Per fare spazio all’altro, bisogna fare silenzio e mettersi in ascolto. Come nella musica, anche nelle relazioni interpersonali occorre, di tanto in tanto, fare una pausa. «È Natale – soleva raccomandare Madre Teresa di Calcutta – ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro». Anche san Paolo VI, contemplando la famiglia di Nazaret, canta il valore del silenzio: «Oh! Se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazareth, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto»[9].

Non meno urgente è coltivare il senso del pudore, della riservatezza e della discrezione contro ogni forma di esibizione ed esposizione mediatica. In un mondo in cui la tecnologia e i social sembrano invadere ogni aspetto della nostra vita è importante riflettere sulla virtù del pudore e della riservatezza e preservarla per il benessere personale e sociale. Preservare la propria intimità è fondamentale per mantenere un equilibrio tra la vita pubblica e quella privata, per proteggere la propria dignità, per difendere la propria personalità e garantire la sicurezza personale. 

Necessarie sono anche le virtù della pazienza, della perseveranza e della reciproca sopportazione. L’apostolo Giacomo nella sua lettera raccomanda: «Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Osservate come l’agricoltore aspetta il frutto prezioso della terra pazientando, finché esso abbia ricevuto la pioggia della prima e dell’ultima stagione. Siate pazienti anche voi; fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina» (Gc 5,7-8). 

La pazienza è la capacità di non agire compulsivamente, ma di reagire con magnanimità e dolcezza al fastidio che ci procurano gli altri per conservare l‘unità e la pace. San Cipriano esortava i cristiani del suo tempo ad avere pazienza e a perseverare per poter giungere alla verità e alla libertà. La fede, la speranza e la carità non portano il loro frutto se non sono accompagnate dalla pazienza. E aggiungeva che non è possibile conservare né l’unità né la pace senza la mutua sopportazione e il fraterno vincolo della concordia[10].

Sopportare pazientemente le persone moleste è un’opera di misericordia che necessita di essere riscoperta e spiegata, evidenziando i benefici che produce nei vari ambiti della vita umana. In fondo si tratta di mettere in atto il comando dell’apostolo Paolo, il quale esortava i cristiani del suo tempo con queste parole: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). 

In questa prospettiva, il verbo “sopportare” rimanda ad una fatica da compiere a causa di un disagio provocato da qualcun altro. Certo, non è facile accettare qualcosa che ci procura fastidio. Per questo, a un certo punto, preferiamo riprenderci la nostra libertà e allontanarci dall’altro. Se però riconosciamo che anche noi abbiamo bisogno di essere portati dagli altri e, primariamente da Dio, allora portare il peso degli altri diventa più leggero. Per questo l’Imitazione di Cristo esorta: «Sforzati di essere paziente nel tollerare i difetti e le debolezze altrui, qualunque essi siano, giacché anche tu presenti molte cose che altri debbono sopportare»[11]

Si contrasta così il modo di pensare comune di oggi che sceglie di tagliare la relazione con la persona che ha creato un disagio, piuttosto che sopportare l’amarezza della relazione e proseguire insieme il cammino della vita. Sopportare pazientemente la sofferenza creata da un’altra persona e cercare di correggerla, comprendendo il suo problema e attendendo il suo ravvedimento, è un grande segno di carità che testimonia la veridicità di un amore, capace di superare le difficoltà che inevitabilmente si presentano nella relazione interpersonale. 

Le virtù richiamate sembrano inattuali o difficili da mettere in pratica. In realtà, il loro esercizio ha un valore benefico per la famiglia, la comunità cristiana e la società civile e il loro esempio ha un’importanza decisiva per l’educazione delle nuove generazioni. Buon Natale!


[1] La spiegazione data dal sacerdote è la seguente: «Auguri interessanti con il nuovo presepe più incisivo e laico. […] Non contiene animali per evitare accuse di maltrattamenti. Non contiene Maria perché propone l’immagine di una donna prona al patriarcato. Quella del falegname Giuseppe non c’è perché il sindacato non ne autorizza l’uso. Gesù Bambino è stato rimosso perché non ha ancora scelto il suo sesso, se sarà maschio, femmina o qualcos’altro. Non contiene più i Magi, perché potrebbero essere migranti e uno di loro è nero (discriminazione razziale, xenofoba). Non contiene una stella cometa per ridurre impatto ambientale e inquinamento luminoso. Non contiene più un angelo per non offendere gli atei, i musulmani e altre credenze religiose. Infine, abbiamo eliminato la paglia, a causa del rischio di incendio, perché non conforme alla norma europea 69/2023/CZ. È rimasta solo la capanna, realizzata in legno riciclato proveniente da foreste conformi agli standard ambientali Iso, alta esattamente 2.70 metri. Che è il minimo per ottenere l’abitabilità». 

[2] Cfr. Giustino, Dialogo con Trifone, 78; dai Vangeli apocrifi: Protovangelo di Giacomo, 20; Vangelo arabo dell’infanzia, 2; Pseudo-Matteo, 13.

[3] Cfr. Gaudium et spes, 52.

[4] Paolo VI, Udienza, 18-XII-1963.

[5] Id., Discorso tenuto a Nazareth, 5 gennaio 1964. 

[6] Cfr.  G. Ravasi, Ritorno alle virtù. Alla riscoperta di uno stile di vita, Mondadori, Milano 2005; V. Mancuso, La forza di essere migliori, Garzanti, Milano 2019.

[7] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1804.

[8] Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, A suor Maria del Sacro Cuore (17 settembre 1896), Lettera 197, in Opere Complete. Scritti e ultime parole, Roma 1997, p. 538.

[9] Paolo VI, Discorso tenuto a Nazareth, 5 gennaio 1964.

[10] Cfr. Cipriano, Vantaggi della pazienza, 13-15; CSEL 3,406-408.

[11] Tommaso da Kempis, Imitazione di Cristo, XVI, 1. 

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