Omelia nella Messa dell’Epifania, Cattedrale, Ugento, 6 gennaio 2022.
Cari fratelli e sorelle,
il Natale e l’Epifania sono come due aspetti dello stesso mistero. Il Natale è la visita definitiva di Dio al popolo eletto. L’Epifania è la sua manifestazione alle genti, «il giorno – secondo san Leone Magno – della nostra nascita e l’inizio della chiamata alla fede di tutte le genti»[1]. Per questo egli esorta: «Entri, entri nella famiglia dei patriarchi la grande massa delle genti, e i figli della promessa ricevano la benedizione come stirpe di Abramo, mentre a questa rinunziano i figli del suo sangue. Tutti i popoli, rappresentati dai tre magi, adorino il Creatore dell’universo, e Dio sia conosciuto non nella Giudea soltanto, ma in tutta la terra, perché ovunque «in Israele sia grande il suo nome» (cfr. Sal 75, 2)»[2].
Si manifesta così, in modo armonico e completo, il disegno salvifico nascosto da secoli in Dio. Egli, infatti, «vuole che tutti gli uomini arrivino alla salvezza e alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Tutta la creazione è rinnovata ed anche l’uomo ritrova la strada per il suo incontro con il Signore. Con il peccato originale, vi era stata una svolta: dalla serena conversazione nell’Eden, allo smarrimento e alla diffidenza dell’uomo nei riguardi di Dio, fino al desiderio di nascondersi per paura di lui (cfr. Gn 3,10) e di costruirsi una torre con le sue mani per arrivare fino a lui (cfr. Gn 11,1-9).
Con la venuta di Cristo, Dio compie il viaggio in cerca dell’uomo, pecorella smarrita, e l’uomo che aveva considerato Dio, come un estraneo se non come un nemico, scopre il suo volto paterno. Con l’incarnazione del Verbo, l’uomo e Dio si ravvicinano, possono nuovamente incontrarsi e parlarsi amichevolmente. Cercato con amore da Dio, l’uomo riconosce di essere essenzialmente un cercatore di Dio. A Natale è Dio che cerca l’uomo. All’Epifania è l’uomo che cerca Dio. I Magi sono l’anima eterna dell’uomo in ricerca e in cammino come discepoli imperfetti che non si arrendono mai di fronte alle avversità.
È necessario il coraggio di ripartire e di dar voce al “nomadismo dell’anima”. Viviamo infatti il paradosso di saper navigare nel mondo virtuale, ma spesso finiamo per smarrirci nella vita reale. I Magi ci insegnano il coraggio di ripartire ogni volta che perdiamo la via. Il viaggio dell’anima non è facile, ma pieno di possibili errori e disorientamenti. Anche i Magi sbagliano strada, ma con l’infinita pazienza riprendono il cammino. Non è un viaggio solitario, ma fatto insieme con altri, tenendo gli occhi alla stella senza mai distoglierli da chi cammina accanto. La ricerca di Dio è un cammino personale e comunitario.
Bisogna seguire insieme la stella, luce in fondo al buio, che aiuta a districarci nelle difficoltà e a orientarci verso la meta. La stella è la luce della ragione e, insieme, la luce della Parola. Entrambe sono segno della luce del Logos, che è vita e luce fontale. L’incarnazione del Verbo è l’incarnazione della ragione eterna. San Giustino, nella Seconda Apologia, scrive: «La nostra dottrina è superiore ad ogni dottrina umana, poiché per noi la razionalità nella sua interezza (to logikon to òlon) si è manifestata in Cristo, in corpo, intelletto e anima. In effetti, tutto ciò che di buono i filosofi e i legislatori hanno sempre scoperto e formulato è dovuto all’esercizio di una parte del Logos che è in loro, tramite la ricerca e la riflessione. Però, dato che non hanno conosciuto la pienezza del Logos, che è Cristo, spesso hanno sostenuto teorie che si contraddicevano a vicenda»[3].
Vivere il mistero dell’incarnazione significa “vivere secondo il logos”, ossia “secondo ragione”. La strada verso Cristo è accessibile a tutti, credenti e non credenti: a chi è tendenzialmente religioso e a chi in partenza ha un’inclinazione laicistica, a quanti sono semplici, senza cultura, e a quanti sono ragionatori e perfino filosofi.
San Bonaventura, nel sermone 165, presenta i Magi come esempio di ciò che ogni uomo deve fare: cercare il Signore. Nel Sermone 155, invita a guardare la stella come astro luminoso che precede e indica lo scopo della ricerca umana. La ricerca di Cristo, infatti, avviene tramite il desiderio della verità e l’amore smisurato (per excessum amoris, n. 7).
Anche per Nicolò Cusano, la stella non è un ornamento estetico, ma un richiamo costante ad intraprendere un coraggioso percorso verso l’incontro con Cristo, nel quale tutte le risorse della razionalità sono adoperate ed anche oltrepassate. Nei sermoni tenuti nel giorno dell’Epifania[1], egli concentra l’attenzione «sul fatto che i Magi fossero guidati da un segno visibile, che li precedeva in forma di stella, e in virtù del quale essi possedettero la certezza che fosse nato colui dal quale dipende la saggezza universale, e che i saggi di ogni dove devono ricercare, conoscere, adorare».
Lo stesso Verbo di Dio, che è la vita e la verità dell’uomo, si è fatto nostra via, compagno di viaggio. Lui stesso è la luce rischiarante, luce di vita, poiché luce della sapienza che manifesta se stessa. Come nulla può esistere di vitale e gioioso senza il sole che l’illumini, anche nel microcosmo che è l’uomo nulla splende senza la sapienza. Inoltre egli afferma che «Ogni uomo ha in sé una stella, che da oriente lo conduce a Gesù ovvero al Verbo di Dio. Infatti per la luce suscitata dalla ragione null’altro desideriamo raggiungere e cerchiamo se non il sole, ovvero la fonte della luce, cioè Gesù. La stella ci precede, infatti la ragione ci guida alla fonte della vita; così i filosofi alla sua luce cercano la luce fontale».
La meta del viaggio è la mangiatoia, luogo dell’umiltà, della mitezza e della povertà. L’ultimo gesto della ricerca, quello conclusivo e permanente, è adorare. Il verbo greco rimanda al gesto di curvarsi e di inginocchiarsi. La derivazione latina del verbo adorare indica il gesto di portare le dita alla bocca (ad os) per mandare con la mano un bacio alla persona venerata. Adorare, dunque, è inviare un bacio di gratitudine e d’amore a Dio che ci ama, ci ha creati e ci colma di vita; “un’estasi d’amore”, suscitato dalla bellezza, della forza, dalla grandezza immensa di Dio.
L’adorazione esprime il dono di sé, mostrando la propria gratitudine e riconoscenza a Dio che non ha bisogno di oro, incenso e mirra, ma vuole la riposta d’amore dell’uomo. Adorare non è offrire qualcosa ma, come dice Levinas, donare a Dio la propria fame e il proprio desiderio di incontrarlo. Nessun uomo è un “vuoto a perdere”. Tutti hanno qualcosa da offrire. Ciò che Dio vuole è la nostra stessa persona. Ha sete della nostra sete e del nostro amore: la nostra adorazione è il dono di noi stessi al Signore!
[1] Cfr. N. Cusano, Sermone CCXVI, Ubi est qui natus est rex Judaeorum? e il Sermone CCLXII, Obtulerunt ei munera.
[1] Leone Magno, Discorso 3 per l’Epifania, 1-3.
[2] Ivi.
[3] Giustino, Apologia, II, 8,1 e 10,1-2, in Id., Apologie, Rusconi, Milano 1995, p. 195 e p. 199.
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