Articolo del Vescovo apparso in “Nuovo Quotidiano di Puglia- Lecce”
sabato 11 giugno 2022, pp. 1 e 13.
Qualche volta, anche senza volerlo, capita di fare una profezia o meglio una giusta previsione. Anche se non è certo piacevole proporre un’autocitazione, la situazione nella quale stiamo precipitando con la guerra in Ucraina, chiede di fare un’eccezione alla regola. In un precedente articolo concludevo il “decalogo della pace” con queste parole: “Sono da condannare non solo le guerre combattute con le armi, ma anche quelle personali e sociali combattute con le parole, i sentimenti e l’ostracismo mediatico”.
Le parole, infatti, sono importanti. A volte feriscono più di una spada. Altre volte disorientano, confondono le idee, spacciano per vero il falso e viceversa. Dopo alcune espressioni quanto meno inappropriate pronunciate alcuni giorni or sono dal Presidente americano, J. Biden, e da altri rappresentati istituzionali occidentali, nelle ultime ore su Telegram il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo ed ex presidente della Federazione, Dmitry Medvedev, ha riacceso le polveri quando, riferendosi a chi è contro il suo Paese, ha scritto: “Mi viene spesso chiesto perché i miei post sono così duri. La risposta è che li odio. Sono bastardi e imbranati. Vogliono la nostra morte, quella della Russia. E finché sono vivo, farò di tutto per farli sparire”. In precedenza, si era scagliato contro la Commissione europea per l’adozione del sesto pacchetto di sanzioni, “sicuramente per fare a pezzi la nostra economia. Gli imbecilli europei nel loro zelo hanno dimostrato ancora una volta di considerare i propri cittadini, i propri affari, come nemici non meno dei russi”.
Sono parole di fuoco inaccettabili. Eppure c’è stato un tempo, quando Medvedev strizzava l’occhio alle democrazie occidentali, ed era da loro considerato il volto amico e gentile della Russia, tanto che in molti lo avevano incasellato come una “colomba” rispetto agli altri falchi del Cremlino. Nel giugno del 2008, infatti, a Berlino in qualità di presidente russo, Medvedev aveva proposto l’idea di uno spazio euro-atlantico da Vancouver a Vladivostock associato ad un Trattato sulla sicurezza europea. Secondo la sua proposta, il Trattato doveva fondarsi sulla riconciliazione russo-tedesca, paragonata a quella franco-tedesca che alla fine della seconda guerra mondiale costituì il motore dell’integrazione europea. Dopo l’atto finale di Helsinki (1975), si era reso necessario redigere e sottoscrivere un Trattato giuridicamente vincolante che si ispirasse ai principi dell’Onu per sancire l’indivisibilità della sicurezza europea.
Ad Evian (8 ottobre 2008), Medvedev aveva specificato, in cinque punti, obiettivi e contenuti del Trattato. Primo: impegno a rispettare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale; rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dei paesi, rispetto per tutti i principi inclusi nella carta dell’Onu. Secondo: inammissibilità dell’uso della forza e della minaccia del suo impiego nelle relazioni internazionali; cementare un approccio comune per la prevenzione e risoluzione pacifica dei conflitti nello spazio euro-atlantico. Terzo: garantire l’equal security basata su tre interdizioni: a) non difendere la sicurezza di uno stato a spese degli altri; b) non consentire atti da parte di alleanze militari o coalizioni che mettano a repentaglio l’unità dello spazio comune di sicurezza; c) non sviluppare alleanze militari che possano minacciare la sicurezza degli altri membri del Trattato. Quarto: nessun stato o organizzazione internazionale doveva avere diritti esclusivi nel mantenere la pace e la stabilità in Europa. Quinto: fissare parametri di base per il controllo delle armi e limiti ragionevoli all’aumento dell’apparato militare.
Scopo del Trattato doveva essere quello di non creare aree a sicurezza differenziata e quindi nuove barriere e divisioni di natura non più ideologica ma istituzionale e, finalmente, forgiare una architettura europea emancipata dalle logiche tipiche della guerra fredda. Per raggiungere questo scopo, Medvedev auspicava un summit generale con tutti i paesi europei indipendentemente dalla loro membership nelle organizzazioni internazionali. I fatti accaduti dal 2008 ai nostri giorni spiegano il suo passaggio da colomba a falco. Questo però non giustifica l’uso di un linguaggio assolutamente riprovevole.
Appare sempre più evidente che la guerra in Ucraina sta diventando non solo una battaglia combattuta con le armi, ma anche con le parole e i sentimenti, fino a diventare un’offensiva e uno scontro verbale di una crisi che non trova sbocchi verso una tregua o una chiara prevalenza di uno dei due belligeranti. La retorica si fa sempre più minacciosa nella speranza che le opinioni pubbliche si intimoriscano e possano spingere i loro governi ad accettare compromessi. Diventa difficile districarsi in una situazione di escalation della propaganda, tesa a disinformare e orientare i fruitori dei media in una direzione o nell’altra.
Le parole possono uccidere perché conservano i fantasmi stratificati dalla storia. Occorre maneggiare il linguaggio con cura perché, come afferma Heidegger, “è la casa del pensiero”. Un linguaggio carico di odio inquina il pensiero e spinge a mettere in atto azioni inconsulte. Il cambiamento anche del corso della guerra comincia quando si stemperano i rancori, si estinguono i sentimenti di odio e si pronunciano parole di pace. Non è una questione di buona educazione o di buoni sentimenti. La guerra non è una fatalità della storia, ma un’azione programmata e compiuta degli uomini. Per questo il Vangelo ammonisce che bisogna innanzitutto purificare il cuore degli uomini. Infatti, «dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e contaminano l’uomo» (Mc 7, 21-23).
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