Articolo in “Nuovo Quotidiano di Puglia- Lecce”,  
domenica 17 novembre 2024, pp. 1 e 9.

La nascita di Gesù è raccontata nel Vangelo di Luca in maniera molto sobria e senza molti particolari. La sua principale preoccupazione è quella di inserire l’avvenimento in una cornice storica per attestare che si tratta di un fatto realmente accaduto, non di un mito o di una fiaba (cf. Lc 2, 1-20) 

Il Vangelo di Giovanni, invece, non narra il fatto, ma spiega il suo vero significato e perciò attesta: «Verbum caro factum est» (Gv 1,14). In altri termini, il Verbo eterno si rende visibile nella storia degli uomini perché assume la loro “carne”, eccetto il peccato (cf. Eb 4,5). La parola latina “caro” traduce il termine greco “sárx” che, a sua volta, richiama il parallelo ebraico “basar”. In italiano, utilizziamo la parola “carne”. Nella nostra cultura, però, lontana dalla concezione biblica, oltre all’immediato significato fisiologico, “carne” denota la sessualità, spesso nella sua forma più istintuale. Il termine ebraico “basar”, invece, sottolinea la dimensione dell’essere vivente in quanto legato alla sua fragilità, alla sua immersione nel perimetro limitato del tempo e dello spazio, al suo esistere caduco e mortale. 

Nel Vangelo di Giovanni la parola sárx mantiene lo stesso significato del termine ebraico “basar”. L’evangelista vuole così dire che il Logos eterno non solo diventa uomo, ma assume una sárx, cioè si fa tempo e spazio, sperimenta il limite, il dolore e persino la morte. Lo stesso significato rimane nel mistero dell’Eucaristia che, analogamente, è un prolungamento della vera, reale e sostanziale presenza di Cristo nel tempo. Pertanto quando Gesù dice che bisogna mangiare la sua carne (cf. Gv 6) non vuole indurre all’antropofagia sacra ma, sulla base del valore sopra citato di sárx come esistenza e persona umana, propone l’intima comunione tra lui e il suo discepolo. 

Va poi sottolineato che l’incarnazione del Verbo non vuol dire che il Figlio di Dio si presenta in forma umana, come se la sua umanità fosse una sorta di vestito che egli indossa e che, propriamente, non gli appartiene e che può dismettere quando vuole. L’umanità è assunta una volta per tutte e rimarrà sempre strettamente legata e unita alla persona divina del Logos. Come successivamente spiegherà il concilio di Calcedonia nel 451, in Gesù, le due nature, umana e divina, sono unite nella persona divina del Verbo «senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili».

Ecco, allora, il vero senso del Natale: l’umanità di Dio! Il Logos divino, perfetto, infinito ed eterno diventa sarx, “carne” umana limitata, votata alla sequenza temporale, imprigionata nello spazio, soggetta a tutti i limiti dell’uomo, vincolata a una cultura, a una lingua, a un modo di vivere sociale, a un territorio e a un’epoca storica circoscritta. Pur rimanendo vero Dio, si fa piccolo e si restringe nei limiti umani. La sua natura divina è quasi compressa e umiliata fino all’esperienza della morte, che è per eccellenza la carta d’identità degli uomini.

L’espressione giovannea, pertanto, sottolinea tre aspetti. Innanzitutto che il Figlio di Dio, in obbedienza al Padre, ha assunto la natura umana. In secondo luogo, che si tratta di una verità di fede e di un avvenimento realmente accaduto e reso visibile nella persona di Gesù. In terzo luogo, che la nascita a Betlemme avviene come tutte le altre, ma ha un significato e un valore infinitamente superiore alla nascita di ogni altro bambino. Colui che viene generato da Maria è veramente suo figlio, ma è anche realmente il Figlio di Dio, in tutto simile e consustanziale a Dio Padre. La sua è la discesa dal cielo sulla terra, come cantano i famosi versi del tradizionale inno natalizio “Tu scendi dalle stelle”. 

La stessa verità di fede è cantata, a suo modo, dallo scrittore agnostico argentino Jorge Luis Borges in una sua poesia pubblicata nel 1969 e intitolata appunto Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo […] / Vissi prigioniero di un corpo e di un’umile anima. / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e appeso a una croce». 

San Paolo, nel bellissimo inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, esprime la stessa verità sottolineando la “kenosi”, cioè l’abbassamento di Dio (cf. Fil 2,6-8). Questo abbassamento e nascondimento della divinità del Figlio nell’umanità di Gesù è la vera povertà e umiltà di Dio. Se ci si domandasse perché ciò è accaduto («cur Deus homo?», si chiedevano i medievali), la risposta è la seguente: per redimere e salvare l’uomo dal peccato e per donargli la possibilità di diventare realmente “figlio di Dio”. Un antico testo apocrifo cristiano mette in bocca a Gesù queste parole: «Io, il Signore, divenni piccolo per potervi ricondurre in alto, donde siete caduti».

San Francesco non ha creato nessun equivoco, ma ha voluto rendere più facilmente comprensibile il mistero della fede. Se ha rappresentato il Natale con il presepe non era per fare una bella e commovente scenografia, ma per rendere ancora più evidente la verità di fede della kenosi di Dio. Anche nel nostro tempo, se il presepe e tutte le tradizioni natalizie sono considerate nel contesto della fede mantengono tutto il loro fascino e la loro suggestione. Se, invece, il consumismo prende il sopravvento non è per colpa delle tradizioni popolari, ma per una profonda crisi di fede.

Sembra che il mistero cristiano nel suo contenuto dogmatico sia sconosciuto ai cristiani e interessi di più coloro che si dichiarano non credenti come Massimo Cacciari. Egli, dopo il libro “Generare Dio”, ha pubblicato recentemente “La passione secondo Maria”Se siamo giunti a questo punto, le responsabilità devono essere equamente distribuite a livello ecclesiale, familiare e sociale. L’appannamento della verità cristiana, è una grave perdita per tutti, credenti e non credenti, perché viene intaccata non solo la fede, ma la nostra stessa identità culturale.

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