Cari fratelli e sorelle, 
il tema della XXXIII Giornata del malato recita: «”La speranza non delude» (Rm 5,5) e ci rende forti nella tribolazione». Il tema riprende un’affermazione di san Paolo nella Lettera ai Romani (cfr. Rm 5, 1-5) nella quale, l’apostolo segue una precisa argomentazione, centrata sulle tre virtù teologali: la fede (fiducia/fedeltà/affidabilità); la speranza (bene sperato / dinamismo che si apre al cammino); l’amore (dono generativo di grazia / impegno di comunione e di missione). La virtù teologale della speranza contiene un dinamismo spirituale che consente di affrontare cristianamente anche la sofferenza e la malattia. Con un notevole movimento ascensionale, l’apostolo Paolo mostra uno sviluppo progressivo (climax)che va dalla tribolazione (thlipsis) alla pazienza (hypomonē) e dalla temperanza (dokimē) alla speranza (helpis).

Le virtù della speranza per attraversare la sofferenza

La speranza è l’approdo finale di un cammino spirituale che inizia con l’accoglienza della tribolazione (thlipsis). Questa virtù rappresenta non solo la capacità di affrontare le difficoltà fisiche, ma anche le lotte spirituali e le sfide a cui va incontro la fede, nella consapevolezza che le prove della vita sono temporanee mentre, la ricompensa è eterna (cfr. 2Cor 4,17).  Questa prospettiva favorisce la resilienza, consente di sopportare le difficoltà e addirittura provoca un particolare sentimento di gioia. L’apostolo Giacomo afferma: «Considerate una gioia, fratelli miei, quando incontrate prove (thlipsis) di vario genere, poiché sapete che la prova della vostra fede produce fermezza» (Gc 1,2-4). L’incoraggiamento a considerare le prove come un’opportunità di gioia evidenzia un principio teologico significativo: Dio non abbandona nessuno durante il tempo del dolore e della malattia, ma sostiene e infonde la capacità di reagire, di superare gli ostacoli e di «ricominciare». Il «tempo della prova» e della malattia schiude nuovi orizzonti e rende capace di oltrepassare la «prova del tempo».

La tribolazione, afferma l’apostolo, produce la pazienza. La lingua greca utilizza due termini hypomonē e makrothymia. Il primo termine è composto da hypo (“sotto”) e monē (“rimanere”) e vuol dire imparare a orientarsi anche in circostanze difficili e a saper affrontare le pressioni della vita. Significa perseverare, sopportare, non arrendersi, non soccombere quando si attraversano situazioni problematiche. Il vocabolo greco è spesso tradotto con sopportazione, costanza, perseveranza, resilienza. La pazienza sopportatrice e perseverante confidare in Dio abbastanza e aspetta i suoi tempi

Anche il secondo termine, makrothymia, è una parola composta da makro (“lunga”) e thymia (“rabbia”). Indica la pazienza estrema con le persone, la lentezza nel vendicarsi del male, la capacità di trattenere l’ira, il non reagire a una provocazione, il deliberato non fare o dire qualcosa quando si potrebbe farlo o dirlo. È una pazienza tollerante e magnanima nei confronti delle colpe, degli errori, dei cattivi atteggiamenti e della scortesia o della cattiveria delle persone intorno a noi.

Come hypomonē è collegata alla speranza, makrothymia è collegata alla misericordia. Dio è paziente con noi perché è misericordioso. Dio, infatti, è lento all’ira ed è misericordioso.

Il terzo passaggio si realizza con la temperanza (dokimē). Essa ha un carattere riflesso, ritorna sul soggetto e lo plasma, portando armonia interiore tra sensibilità, intelletto e volontà, consentendo alla persona di esprimere tutte le sue potenzialità[1].

Nel complesso, colpisce la scarsa presenza, nel Nuovo Testamento, di questo termine così rilevante per la filosofia greca. La prospettiva è infatti molto differente: non il dominio di sé, ma l’accoglienza della volontà salvifica di Dio, liberamente donata, è l’elemento centrale per l’uomo biblico. Il comportamento etico è la risposta a questo dono, che precede ogni iniziativa umana e la rende possibile.

Molteplice è il ventaglio di significati racchiusi nel termine «temperanza»: vuol dire dare il giusto spazio come il moderatore di una tavola rotonda, comporta anche la capacità di frenarsi, indispensabile per la riflessione e il governo di sé. Riprendendo sant’Agostino, san Tommaso nota che un grande aiuto per la temperanza è educare l’anima alla bellezza delle realtà spirituali[2]. La temperanza è la virtù che più di ogni altra consente di fare esperienza di Dio.

L’approdo finale è la virtù della speranza (helpis). C. Peguy amava definire la speranza una virtù «bambina»[3]. La «piccola» speranza è compagna di chi soffre, genera il coraggio di ricominciare, la forza per rimettersi in piedi e il desiderio di camminare sulla via, la fermezza pacata e misurata che sa attendere il tempo in cui Dio stesso interverrà col suo giusto giudizio.

La speranza diventa così una caratteristica, quasi una definizione dell’umano: «L’uomo per eccellenza è colui che spera», scrive Filone Alessandrino; il «non ancora» che è pure il già. In uno dei più grandi romanzi della letteratura universale, La morte di Virgilio di Hermann Broch, sostiene che questo “noch nicht und doch schon” (“non ancora eppure già”), è l’essenza, la struttura, la tonalità della vita. 

La speranza permea tutta la persona, tutta la sua complessità di desideri, nostalgie, paure, debolezze, affetti e amori. Sperare è vivere. Was kann ich hoffen? Cosa posso sperare, si chiedeva già Kant nella Critica della ragion pura. La speranza nasce dalla tribolazione, anzi dalla disperazione, dalla lacerazione dell’esistenza umana, che crea un’insopprimibile necessità di riscatto, una «fame» — scrive Ernst Bloch nel suo libro Il Principio Speranza — di giustizia, di libertà, di dignità, anche di felicità. Non a caso, nella mitologia greca, Elpis, la dea della speranza, è figlia di Nix, la dea della notte. I fratelli di Elpis sono Tartaro ed Erebo (gli dèi delle tenebre e delle ombre), mentre sua sorella è Eris (discordia). Elpis ed Eris formano una endiadi formidabile. La negatività della disperazione è costitutiva della speranza.

Benedetto XVI indica quattro luoghi di apprendimento e di esercizio della speranza: è la preghiera, l’azione, la sofferenza, il giudizio di Dio[4]. «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società»[5]. La vergine di Leuca, stella della speranza ci aiuti a vivere anche i momenti di sofferenza e di dolore e a offrirle al Signore in unione alla sua sofferenza redentrice.  


[1] Alla temperanza è dedicato il dialogo platonico Gorgia (492c-500c), tra Socrate e il “libertino” Callicle, cfr. Gorgia, 492c-500c. Aristotele tratta della temperanza nel VII libro dell’Etica Nicomachea, cfr. Etica Nicomachea, 1147b 1-6. Riprendendo l’idea dell’amore ordinato (ordo amoris) di sant’Agostino, indispensabile per la virtù san Tommaso considera la temperanza come la capacità di regolare le passioni legate al tatto (cfr. Tommaso, Sum. Theol. I-II, q. 55, a. 1, ad 4um; q. 62, a. 2, ad 3um) in particolare quelle che mirano alla conservazione dell’individuo (mangiare, bere, vestire, cura di sé, denaro) e a quella della specie, l’unione tra l’uomo e la donna, raggiungendo il piacere proprio del bene conseguito (cfr. Tommaso, Sum. Theol. II-II, q. 141, aa. 3-4; a. 4, ad 3um).

[2] Tommaso, Sum. Theol. II-II, q. 142, a. 2.

[3] Cfr. C. Péguy, II portico del mistero della seconda virtù, Jaca Book, Milano 1978, 17-19.

[4] Per l’approfondimento della virtù della speranza in relazione alla sofferenza, cfr. Benedetto XVI, Spe salvi,35-40.

[5] Ivi, 38.

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