Omelia nella Messa del giorno di Pasqua
chiesa Cattedrale, Ugento, 17 aprile 2022.

Cari fratelli e sorelle,

«pace a voi» è il saluto pasquale di Cristo risorto (cfr. Gv 20,19.21.26) che continua a rivolgere alla Chiesa e al mondo. È la parola eterna che il cristiano deve annunciare a tutti gli uomini, in ogni tempo e soprattutto ai nostri giorni attraversati da terribili venti di guerra. 

Il Vangelo di Giovanni racconta il primo incontro del Risorto con la comunità dei discepoli con queste parole: «La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo mostrò loro le mani ed il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,19-20). Otto giorni dopo Gesù appare nuovamente ai discepoli e ripete lo stesso saluto (cfr. Gv 20, 26). L’esperienza pasquale manifesta con particolare intensità quattro aspetti: l’iniziativa del Risorto, l’ostensione delle piaghe, la gioia dei discepoli e il saluto di pace.  

Innanzitutto, mette in evidenza l’iniziativa del Risorto. Egli si presenta a una comunità ancora incerta e incredula. L’avvenimento della risurrezione non è solo un avvenimento reale e un mistero, ma è soprattutto una persona: Cristo risorto. Egli è «il vivente» (Lc 24, 5). Melitone di Sardi nella sua omelia sulla Pasqua sottolinea con insistenza la dimensione personale del mistero: «Sono io, infatti, il vostro perdono, io la Pasqua della redenzione, io l’Agnello immolato per voi, io il vostro lavacro, io la vostra vita, io la vostra risurrezione, io la vostra luce, io la vostra salvezza, io il vostro re. Io vi porto in alto nei cieli. Io vi risusciterò e vi farò vedere il Padre che è nei cieli. Io vi innalzerò con la mia destra»[1].

Cristo risorto mostra le sue piaghe nelle quali sono condensate le piaghe di tutti gli uomini di tutti i tempi. Per san Beda, le piaghe di Cristo dimostrano in modo perpetuo il suo trionfo sulla morte. Sant’Agostino afferma: «Cristo sapeva bene perché doveva mantenere le cicatrici nel Suo corpo. Come le ha mostrate all’incredulo Tommaso perché le vedesse e le toccasse, così le mostrerà anche ai suoi nemici, di modo che, convincendoli della verità, possa dire: ‘Ecco l’uomo che avete crocifisso. Ecco le piaghe che gli avete inflitto. Guardate il fianco che avete trafitto. Perché è stato aperto per voi, e anche così non siete voluti entrare».

San Tommaso d’Aquino, richiamando queste spiegazioni, sottolinea che vi sono cinque motivi per la permanenza delle piaghe sul corpo risorto di Gesù: non presentano una mancanza di perfezione in Cristo, ma offrono la testimonianza visibile del fatto che egli ha vinto la morte e confermano che il Gesù risorto è lo stesso che era stato crocifisso. In tal modo, rendono stabile il cuore dei suoi discepoli nella fede pasquale; mostrano la gloria di Cristo risorto agli uomini e presentano al Padre la sofferenza subìta per mano degli uomini. Richiamano il prezzo della redenzione e la grandezza dell’amore e della misericordia per il perdono dei peccati; sono il criterio del giudizio finale per ricordare ai condannati il loro rifiuto nonostante i segni di cui sono stati testimoni.

La presenza di Cristo risorto è fonte di gioia per i discepoli. Il “risus paschalis” è la grazia di aver “visto il Signore” e di aver provato una gioia indescrivibile. Una preghiera ebraica, divenuta anche cristiana, recita: «Egli ci ha fatti passare: dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce, dalla servitù alla redenzione»[2]. La gioia è una grazia pasquale. Gli uomini possono essere collaboratori della loro gioia, non gli autori. La gioia nasce dall’incontro con Cristo risorto quando vediamo la sua persona e tocchiamo le sue piaghe. Lui ci sfiora e in noi rinasce la gioia, come dice il poeta: «Quando mi sfioreranno le tue mani immortali, il mio piccolo cuore si smarrisce dalla gioia e sgorgano parole ineffabili» (R. Tagore). La gioia pasquale, però, deve essere accolta e nutrita con altri doni pasquali: il Vangelo, il pane eucaristico, i doni e le ispirazioni dello Spirito Santo.

Il dono più grande di Cristo risorto è la pace. Lui stesso è la «nostra pace: colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’odio, per mezzo della sua carne» (Ef 2,14). In quanto principe della pace (cfr. Is 9,6), Cristo rivela che Dio stesso è pace (cfr. Rm 15,33). Come un mare calmo, Dio ha creato gli uomini con un impasto di pace e di misericordia così tutti portiamo dentro di noi la nostalgia di un’armonia originaria, dove non c’è conflitto, ostilità, scontro, ma intesa, accordo, riconciliazione. Pacificandoci nel suo Figlio (cfr. Rm 5,1), il Padre ci ha trasmesso la legge del vincolo di unione e di fraternità (cfr. Ef 4,3), la distruzione dell’inimicizia in noi stessi, la riunificazione dei figli di Dio che sono dispersi e la vittoria definitiva su Satana, colui che semina discordia e divisione (cfr. Rm 16,20). 

La pace di Cristo non è la pace del mondo (cfr. Gv 14,27), ma è un suo dono (cfr. Gv 16,33), offerto ai discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace non come la dà il mondo» (Gv 14, 27). Frutto della redenzione che Cristo ha portato nel mondo, la pace è il dono che il Risorto continua ancora ad offrire alla sua Chiesa riunita per la celebrazione dell’Eucaristia. Nella tradizione liturgica romana, lo scambio della pace è collocato prima della comunione per significare che la pace di Cristo è la consegna definitiva del suo trionfo contro i veri nemici dell’uomo: il male, la morte, il peccato, il Maligno. Essa sostituisce la paura, l’incertezza, il turbamento, la preoccupazione, il disagio e infonde serenità interiore, tranquillità dell’animo, visione positiva della realtà, pur nella drammaticità degli eventi, che comprende benessere fisico e ricerca dell’equilibrio nelle relazioni umane, condivisione dei doni di Dio e armonia con la creazione. I suoi insegnamenti e il suo esempio sono messaggeri di pace, l’oggetto dell’annuncio al mondo, il fondamento del servizio al nostro prossimo.

La pace è un dono, ma sta a noi raggiungerla, costruirla, conservarla. Allora essa diventa una 

una beatitudine (cfr. Mt 5,9). Essa si coltiva con il coraggio (parresia) e la pazienza (hypomoné). Vivere la pace, infatti, non significa mantenere la tranquillità. Non si tratta di una “realtà a buon mercato”, di un impegno esigente e non arrendevole, ma forte e generoso per compiere le giuste scelte e trovare la volontà di Dio. È un cammino faticoso, e quelli che si adoperano per la pace sono benedetti, perché saranno chiamati figli di Dio (cfr. Mt 5, 9).  

Bisogna convertirsi alla pace. Innanzitutto si tratta di una conversione personale che parte dal cuore dell’uomo (cfr. Mc 7,14-23). Gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. Occorre una conversione culturale e interculturale. L’Occidente, ad esempio, vive la contraddizione tra l’enunciazione di grandi principi e la loro attuazione secondo i propri interessi. Vi è poi una conversione religiosa che tocca anche coloro che si dichiarano credenti: «Svegliamoci principi della pace! Ogni inerzia è tradimento della nostra missione regale. Ogni indugio è diserzione dal nostro ruolo messianico. Tocca a noi liberare tutte le creature, gementi per le doglie del parto, dalla corruzione del peccato e della morte»[3]. Il conseguimento della pace, infine, esige una conversione politica. Se esiste un diritto/dovere di difendersi esiste anche un dovere di promuovere la pace e di non alimentare la guerra. Essa è vietata dalla Carta delle Nazioni Unite e universalmente dal diritto fondamentale internazionale. Alle dichiarazioni e agli impegni solenni dovrebbero seguire strumenti giuridicamente vincolanti che sanciscono tale diritto dei singoli e dei popoli.  


[1] Melitone di Sardi, Omelia sulla PasquaEpilogo, 103 cfr. R. Cantalamessa, I più antichi testi pasquali della Chiesa, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2009, pp. 60-61.

[2] Pesachim X, 5; cfr. Melitone, Omelia sulla Pasqua, 68.

[3] A. Bello, Scritti, II, p. 44, n. 44.

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